Rush – R40 Live

(Andrea Romeo)

L’antefatto di questa storia è datato 1968: a Toronto, Canada, il chitarrista Alex Lifeson ed il batterista John Rutsey, insieme al bassista e cantante Jeff Jones, formano un gruppo, chiamato The Projection; dopo la prima esibizione Jones viene rimpiazzato da Geddy Lee e muta il nome in Rush; con l’ingresso del polistrumentista Lindy Young la band, che ora si chiama Hadrian, inizia ad avere un certo seguito.

La storia, a questo punto, inizia a farsi davvero confusa: Rutsey convince i compagni a rimpiazzare Lee con un nuovo bassista, Joe Perna, ed allora Lee forma un nuovo gruppo, i Judd, ai quali si unisce Young: gli Hadrian, rimasti in due, si sciolgono, così come i JuddLee, con Lifeson e Rutsey, ricostituisce il vecchio gruppo, recuperando definitivamente il nome Rush.

Nei successivi tre anni, un’intensa attività live conduce il trio alla realizzazione del primo album, dal titolo omonimo, molto zeppeliniano nei suoni ma nel quale si trovano già brani interessanti, e che fanno presagire molto del futuro del gruppo: uno di essi, Finding My Way, è quasi un presagio: Rutsey lascia e, nel 1974, ecco l’incontro che cambierà, per sempre e definitivamente, la storia dei Rush: alla batteria si presenta Neil Peart che, ribattezzato dai compagni the Professor, si occuperà di scrivere la quasi totalità dei testi del gruppo che, grazie alla sua padronanza della lingua scritta e parlata, abbonderanno di riferimenti letterari.

Siamo giunti al 1975, quando esce Fly by Night, e la storia dei Rush inizia a marciare in maniera spedita ed instancabile: quarant’anni di carriera, diciotto album in studio (oltre a quello di debutto), undici album dal vivo, otto raccolte, un paio di EP ma, soprattutto, una crescita costante durante la quale, anche singolarmente, i tre musicisti sono divenuti delle vere e proprie icone: Geddy Lee ha “sgrezzato” nel tempo la sua voce particolare ed acuta e, nel contempo, è divenuto uno dei bassisti stilisticamente e tecnicamente più influenti; Alex Lifeson, personaggio schivo e, forse per questo motivo, sottostimato, si è rivelato un chitarrista notevolissimo, e dal grande gusto nelle scelte melodiche; Neil Peart è citato, ancora oggi, dalla maggior parte dei colleghi specie i più giovani, quale punto di riferimento irrinunciabile.

Una storia lunga, dunque, segnata anche da momenti drammatici: l’unica figlia di Peart, Selena, morì in un incidente stradale nel 1997 e la sua compagna, Jacqueline, scomparve dopo una malattia nel 1998; Peart che, come detto, era appassionato di letteratura e di viaggi, ed aveva già scritto un libro nel 1988, The Masked Rider, che documentava un viaggio in bicicletta attraverso il Camerun, dopo questi tragici eventi si allontanò dalla musica e pubblicò lo splendido Ghost Rider: Travels on the Healing Road, resoconto di un viaggio motociclistico attraverso Canada, Stati Uniti, e Messico, effettuato poco dopo alla scomparsa della moglie e della figlia.

I compagni della band lo attesero, per quattro anni, e lo riaccolsero nella band che non avrebbe avuto più senso senza di lui.

L’età, la fatica dei tour, la salute non sempre al top, sono elementi che, ad un certo punto della carriera, inducono un musicista a riflettere, soprattutto nel momento stesso in cui inizia a rendersi conto di non poter più mantenere il suo consueto livello, soprattutto esecutivo e, per il batterista di Hamilton, persona sensibile e segnata dagli eventi, il momento è infine giunto: il tour del quarantennale, 1975/2015, sarebbe stato l’ultimo capitolo della sua storia con i Rush.

Avevano iniziato, alla grande, con un album che era stato certificato disco d’oro e di platino, per cui valeva la pena di chiudere altrettanto in bellezza; avevano cominciato nella natia Toronto, la città che li aveva lanciati, ed a Toronto era giusto chiudere il discorso.

Durante il loro ultimo tour, di 36 date, iniziato a Tulsa e concluso al Forum di Inglewood, che ha attraversato gli Stati Uniti, R40 Live viene registrato durante l’unica tappa canadese, due serate all’ Air Canada Centre di Toronto.

Una scaletta, quella presentata, che ha accontentato i fans di tutte le epoche: una trentina di brani, alcuni mai suonati dal vivo, altri eseguiti solo parecchi anni prima, ma molti altri che rientrano nella categoria dei brani-che-non-puoi-non-suonare: Distant Early Warning, Subdivisions, Tom Sawyer, Red Barchetta, The Camera Eye, YYZ, The Spirit of Radio, Cygnus X-1, Closer to the Heart, Xanadu, la suite di 2112, Lakeside Park, tutti eseguiti da una band in splendida forma e che ha riproposto anche alcune delle scenografie utilizzate nei precedenti tour, in un viaggio a ritroso nel tempo per cui il palco si presenta sempre più scarno, durante lo show, fino a simulare, alla fine, una palestra scolastica.

Come recita una frase di Ernest Hemingway, riportata all’interno del booklet: “It is good to have an end to journey toward, but it is the journey that matters in the end.”

E, malgrado ovviamente circolino le ipotesi più disparate sul possibile futuro della band, le dichiarazioni rilasciate da Geddy Lee paiono essere davvero definitive:

Neil ha smesso di suonare.
Non solo ha smesso di suonare nei Rush, ha proprio smesso di suonare la batteria. Non sta suonando più, e sta vivendo la sua vita, il che è un bene.
A me e ad Alex questo va bene, e siamo ancora ottimi amici.
In effetti, Alex ed io lo siamo andati a trovare proprio poche settimane fa, e siamo sempre in contatto.
Poi, naturalmente, Alex ed io andiamo spesso a cena fuori insieme, dato che abitiamo molto vicini l’uno all’altro, e poi lui adora bere tutto quello che viene fuori dalla mia cantina.
Siamo ancora amici, parliamo di tutto, ma quel periodo della nostra vita è finito.”

(Anthem Entertainment/Zoe Records/Universal, 2015)

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