Rick Wakeman – The Red Planet

Pare che Rick Wakeman, questa volta, abbia proprio deciso di dare una pulita alla casa ed abbia lucidato l’argenteria, lasciata lì per troppo tempo ad ossidarsi e prendere polvere…

Fuor di metafora, per raccontare il suo nuovo album che dovrebbe essere, più o meno, il centesimo come solista, escludendo quindi Strawbs, Yes, Black Sabbath, Ozzy Osbourne, David Bowie ed altre collaborazioni varie, si potrebbe partire proprio dal fatto che, il tastierista di Perivale, abbia letteralmente spazzolato via la polvere da tutte quelle tastiere analogiche che ne avevano definito il suono; non contento, ha individuato un “argomento”, ovvero il prossimo cinquantesimo anniversario della prima missione mai atterrata su Marte, ed ha deciso di raccontarlo attraverso otto brani, corredando la narrazione musicale con un ricco booklet esplicativo.

Per fare ciò si è avvalso di un gruppo ridottissimo di collaboratori, ovvero Dave Colquhoun alle chitarre, Lee Pomeroy al basso ed Ash Soan alla batteria.

Se a qualcuno questa descrizione può ricordare qualcosa, un certo suo album, diciamo di una certa notorietà, più che altro come idea, struttura e team beh, si… è proprio lì che, il keyboard wizard, ha voluto andare a parare; ma, sin qui, tutto sommato, ritroviamo il Wakeman che ci si poteva ragionevolmente attendere.

Nel momento in cui, però, si inizia ad ascoltare l’incipit del brano che apre The Red Planet, ovvero Ascraeus Mons, usando un anglicismo si potrebbe dire… expect the unexpected, perché qualcosa è cambiato, e di assai rilevante, sia nella scrittura che nelle scelte esecutive.

Conoscendo il soggetto, i più diffidenti si attenderebbero, grossomodo, torrenziali cascate di note, sovrapposizioni infinite di timbri, ritmi complessi, ghirigori sonori, insomma la riproposizione di uno schema in cui ci sono LE tastiere e poi, ma solo poi, gli altri strumenti, ed invece accade esattamente tutt’altro: le tastiere ci sono, e ci mancherebbe altro, ma sono UNO degli strumenti, e spesso neppure quello prevalente.

Tharsis Tholus è la dimostrazione, non certo l’unica, di come Rick Wakeman abbia inteso lavorare su questo album: si è circondato di immagini “marziane”, con l’intento preciso di trarre ispirazione da quegli scatti, ha poi selezionato i suoni, molti suoni, che spesso vengono utilizzati nel medesimo brano, ma non sono mai sovrapposti o ridondanti e, soprattutto, ha enfatizzato il ruolo dei suoi compagni di viaggio, The English Rock Ensemble, lasciando loro molte volte il ruolo di protagonisti.

Dave Colquhoun, pur collaborando da parecchio con Wakeman, non è esattamente un chitarrista prog, avendo lavorato con Go West, Paul Young, Belinda Carlisle, T’pau, Bucks Fizz e Bananarama, ma proprio per questo motivo alleggerisce l’impianto sonoro dell’album attraverso azzeccate scelte melodiche, sia con la chitarra elettrica, sia con l’acustica: in Arsia Mons ad esempio, poco prima della metà del brano, prende letteralmente per mano la band e la conduce sino alla fine, alternando arpeggi melodici e riffs distorti, a seconda del momento.

Lee Pomeroy, al contrario, il prog lo mastica parecchio, e da parecchio tempo, essendo stato spesso partner di Steve Hackett, sin dai tempi di The Tokyo Tapes e, più recentemente, di Wakeman, Anderson e Rabin, e lo si deduce proprio dal come interpreta il ruolo del basso all’interno di questo quartetto: linee pulite e dal timbro definito, complesse si, ma solo quanto basta, e che spesso interpretano vere e proprie melodie, come in buona parte di Olympus Mons, nella parte centrale di Arsia Mons o nell’intro della conclusiva Valles Marineris.

Ash Soan invece è, carriera e curriculum alla mano, un batterista assolutamente pop (Lisa Stansfield, Belinda Carlisle, James Morrison, Boyzone, Robbie Williams, Cher, Billy Idol, Mark Owen, Geoff Downes…), e quindi latore di un drumming lineare, che arricchisce frequentemente con interessanti fills, ma che non sovraccarica mai, proprio per non rischiare di compromettere l’insieme.

Ecco… quest’album è un vero lavoro d’insieme, che si muove si in ambito prog ma che non ambisce a divenire l’ennesima “prova di forza”, in cui dover dimostrare “quanto siamo bravi”; negli otto brani che lo compongono, Wakeman ha come obbiettivo quello di descrivere gli spazi, i paesaggi, i viaggi che hanno avuto il pianeta rosso come protagonista, adattando ad ogni situazione suoni, tempi, pause.

The North Plain, in questo senso, è un brano davvero paradigmatico, nel quale la band accelera e si interrompe, più e più volte, proprio con l’intento di raccontare quello specifico spazio.

A voler essere proprio pignoli, l’unico brano in cui il tastierista inglese torna, anche se in minima parte, a “pavoneggiarsi”, è proprio Pavonis Mons, in cui si ritrova tra le righe quell’atteggiamento un po’ debordante al quale ci aveva abituato decenni addietro; ma anche in questi momenti, diciamo così, “old style”, non ci sono più quella pesantezza e quella ostinazione, spesso stucchevoli, nel voler affastellare note su note: tanti suoni, uno via l’altro, ma un impianto sonoro che, in ogni caso, non risulta mai essere pesante all’ascolto.

Né aulico né barocco dunque, e ciò perché, grazie a questo lavoro Rick Wakeman va a compiere due operazioni importanti: una cesura, decisamente netta, con quell’ampollosità che lo ha spesso accompagnato nel periodo che va dagli anni ’80 sino agli anni ‘00, e contemporaneamente un ritorno a quella musica descrittiva, quasi pittorica, che lo aveva caratterizzato sia negli Yes che nei suoi primi, ed acclamati, lavori solisti.

Wakeman stesso, a proposito del suo nuovo album, ha dichiarato: “E’ stato molto divertente tornare al prog e penso che, il periodo di tempo lontano dalla registrazione di un album del genere, abbia contribuito notevolmente a rendere ‘The Red Planet’ estremamente fresco.

Non si può non concordare con questa dichiarazione e questo proprio perché, una volta tanto, la “ascoltabilità”, la “leggerezza” ed appunto la “freschezza”, sono reali e tangibili.

(RWCC/Snapper Music/Madfish, 2020)

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