Revolution Saints – Rise

(Andrea Romeo – 18 febbraio 2020)

Senza voler peccare troppo di esterofilia, questa volta si potrebbe esclamare: “Welcome back to your eighties!!!”, e questo per dare un’idea, anche solo abbozzata, della terza fatica di questo melodic power trio di navigati musicisti che, a dispetto della carta di identità, aggrediscono le undici tracce dell’album con il piglio di entusiasti ragazzi che hanno ancora una gran voglia di “spaccare tutto”.

Un po’ di Whitesnake, un po’ di Mr. Big, una botta di Journey, ma con in corpo tanta adrenalina in più: questo, sintetizzando, sono i Revolution Saints, per i fans già divenuti Rev Saints, e queste sonorità costituiscono la spina dorsale di Rise, che fa seguito al debutto omonimo, datato 2015, Revolution Saints, ed al successivo Light in the Dark, licenziato due anni dopo.

Deen Castronovo, batteria e voce, (Journey, Ozzy Osbourne, Steve Vai, Bad English, Hardline, The Dead Daisies), Doug Aldrich, chitarre, (Whitesnake, Dio, Lion, The Dead Daisies, House of Lords, Bad Moon Rising, Burning Rain) e Jack Blades, basso e voce, (Night Ranger, Damn Yankees, Shaw Blades) affiancati dall’autore, produttore e tastierista Alessandro Del Vecchio realizzano,con questo lavoro, un piccolo capolavoro di hard-rock melodico, un album che, malgrado sia, temporalmente, “di un’altra epoca”, suona fresco, frizzante, dinamico e, cosa probabilmente molto più importante, non datato: certo, fosse uscito trent’anni fa, probabilmente un lavoro del genere sarebbe stato considerato un classico ma, come si suol dire, non è mai troppo tardi.

Già dal brano di apertura, quella When The Heartache Has Gone che parte come una sorta di “fucilata” improvvisa, si intuiscono chiaramente le caratteristiche in base alle quali i tre musicisti (più uno…) hanno voluto impostare il loro lavoro: una sezione ritmica energica, semplice, soprattutto nelle linee di basso di Blades, ma estremamente dinamica, con il drumming di Castronovo che letteralmente “trascina” l’ascoltatore dentro la canzone, e poi le chitarre di Aldrich che, sia nelle sezioni ritmiche, ma anche nelle digressioni soliste, sciorina un infinito repertorio di suoni, coloriture, incroci melodici con le tastiere, insomma un bagaglio artistico, e non solo tecnico, che riesce a raccontare trenta e passa anni di chitarra rock ai massimi livelli. Il batterista, tra l’altro, si distingue in maniera eccellente anche nella prestazione vocale, aggressiva, graffiante ma anche calda e capace di interpretare con gusto le atmosfere dei singoli brani.

I Revolution Saints divertono, e si divertono, realizzando melodie che hanno il pregio di rimanere, da subito, fissate nella memoria dell’ascoltatore: semplicità, certo, e se vogliamo anche una certa dose di furbizia, perché i tre sanno come entrare nella testa della loro audience, ma anche quella capacità, per così dire, artigianale, di fare musica, che ottiene, fra gli altri, il risultato di non sembrare affatto un’operazione asettica, pianificata a tavolino.

I brani sono ariosi, spontanei, e pezzi come Price we pay, Rise, Coming Home se, da un lato, fanno correre le lancette dell’orologio verso anni passati, dall’altro non mostrano affatto di avere un lato, per così dire, “polveroso”, né di essere una sorta di residuo, di quelle epoche: tirate fulminee, break improvvisi, rapidissime ripartenze, e la capacità di mescolare i suoni facendo si che non ci siano mai, neppure nei rari momenti di quiete, cali di tensione o pause.
Ma i veri punti di forza, che si pongono alla base di questo lavoro, sono le melodie e gli arrangiamenti, che garantiscono ai brani l’immediatezza e la spinta giusta per “bucare” immediatamente; e quando un pezzo si riascolta volentieri, anche da subito, magari per coglierne sfumature e dettagli ulteriori, allora significa che l’obbiettivo è stato centrato.

AOR, o melodic hard-rock che dir si voglia, Rise è la dimostrazione che, quando la tecnica si mescola con l’ispirazione e la semplicità, musicisti di questo calibro molto difficilmente mancano l’obbiettivo.

Detto questo, quando e laddove sarà possibile vederli dal vivo, non ci sarà affatto da stupirsi se, di fronte a loro, vecchi e nuovi “rockettari” balleranno e canteranno tutti insieme tra fiumi di birra, divertendosi come dei pazzi, per lo meno tanto quanto, i tre signori in questione, staranno facendo sopra il palco: musica di classe, divertente, coinvolgente, una vera e propria festa, come del resto è giusto che sia.

(Frontiers Records, 2020)

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