Porcupine Tree – Closure-Continuation

(Andrea Romeo)

Quando il singolo Harridan è uscito sulle piattaforme di streaming, ai primi di Novembre del 2021, le voci che si erano rincorse nei mesi precedenti trovavano conferma: i Porcupine Tree, la band che Steven Wilson aveva di fatto congelato una decina di anni prima, lasciandone il futuro nell’incertezza, stavano per tornare sulle scene; ad affiancare il leader, Richard Barbieri, tastiere, e Gavin Harrison, batteria non c’era più Colin Edwin, bassista e co-fondatore del gruppo ed in un’intervista al sito Truemetal lo stesso Wilson ne spiega il perché: “Non è che ci sia questa gran storia dietro, diciamo tanti piccoli tasselli che hanno fatto sì che le cose andassero in questo modo; il primo aspetto riguarda la genesi di questo nuovo progetto iniziato un giorno in cui sono andato da Gavin per una tazza di tè, e ad un certo punto lui ha proposto di suonare un po’ insieme: mi sono guardato attorno nel suo studio e non c’era una chitarra, ma aveva un basso, per cui ho preso quello.

La prima cosa che abbiamo suonato è diventato l’inizio di Harridan, brano che apre l’album: abbiamo suonato più volte e non ho sentito la mancanza della chitarra anzi, mi sono divertito a suonare il basso; come molti chitarristi quando imbraccio un basso tendo a suonarlo come fosse una chitarra, per cui ho suonato molte note alte, melodie e accordi che un bassista vero e proprio probabilmente non avrebbe impostato in quel modo, per cui le fondamenta, le basi del disco, sono state gettate da me e Gavin mentre suonavo il basso con quello stile, molto diverso da quello di Colin. In questo senso è diventato un fatto compiuto tanto che, completati tre o quattro brani, ho detto: “Ok, immagino allora di essere io il bassista sul disco”.

Inoltre nessuno di noi sente Colin ormai da anni: ci siamo separati nel 2010 ma mentre con Gavin e Richard ci siamo sentiti spesso per un tè, un pranzo o per vederci, di Colin non ho più avuto notizie e lui stesso non ha spinto per essere coinvolto attivamente in alcun progetto futuro; ma soprattutto, per come la vedo io, il nocciolo creativo della band è sempre stato formato da noi tre: l’interesse di Gavin per le parti complesse di batteria, le indicazioni sui tempi, la poliritmia, l’enfasi che Richard mette nel sound design ed il tessuto del suo modo di suonare la tastiera, due aspetti filtrati poi con la mia sensibilità di cantante-compositore.

Ma torniamo ad Harridan: un’imponente e nervosa intro di basso e poi un’apparente semplicità una linearità quasi inattesa, per un pezzo che suona facile, ma facile non è (non c’è un singolo passaggio in 4/4…) tanto che, pur non essendo musicisti, vale davvero la pena di andarsi a vedere il video (https://youtu.be/rZXJ6sptBeQ) che ha messo in linea Corrado Bertonazzi, noto batterista e didatta dello strumento, per scoprire il “dietro le quinte”, e cioè tutti quei dettagli ritmici costruiti da Harrison sui quali Wilson e Barbieri hanno poi appoggiato le loro note.

Il trio non si risparmia nel creare atmosfere, da quelle più tese e drammatiche ad altre più rilassate e trasognate: gli echi dei Porcupine Tree più sperimentali, quasi psichedelici e non più così espliciti come agli inizi, risuonano proprio in queste finezze che vanno colte per entrare nella logica di un gruppo che costruisce i propri brani, mattone dopo mattone, con un puntiglio certosino.

Il secondo singolo Of the New Day, scritto interamente da Wilson ed uscito nel mese di Marzo del 2022, è la logica intersezione tra l’attività della ricostituita band ed i lavori solisti del musicista di Kingston upon Thames: malinconico, struggente, ricco di passaggi in minore, con improvvisi e quasi violenti lampi sonori che trasmettono disperazione, lacerazione, dolore e quelle linee di chitarra, in parte trascurate nel recente passato, che tornano protagoniste nelle tessiture melodiche.

Anche Rats Return, quarto singolo pubblicato, è un brano che pur partendo subito fortissimo si sviluppa attraverso una serie di strutture ritmiche e melodiche capaci di trasmettere sensazioni differenti, financo contraddittorie: il duo Wilson/Harrison lavora con una sincronia ed una precisione quasi chirurgiche mentre Barbieri, qui più sound designer che semplice tastierista, colora i passaggi con scelte di suoni originali, sicuramente figli della sua esperienza con i Japan e quindi certamente fuori dagli schemi consueti del progressive rock, genere al quale la band è sempre stata associato; Dignity, per contro, è una ballad soffice e delicata in pieno stile Porcupine Tree, che rimanda agli anni di Stupid Dream per intenderci e che in qualche passaggio rieccheggia persino Kiss from a Rose, brano di Seal del 1994.

Steven Wilson ha portato all’interno della band la sua attitudine pop, in modo evidente, mescolandola al drumming quasi irreale di Harrison, in grado di trovare sempre, assolutamente sempre, un pattern adatto al momento, ed alle scelte armoniche, melodiche e timbriche di Barbieri: il sound di questa nuova versione della band quindi, in parte recupera sonorità del passato più remoto, in parte ne propone di inedite, creando un mix non proprio innovativo ma comunque differente, perché le radici sono profonde e non consentono certamente di deragliare rispetto ad un percorso inevitabile.

Herd Culling, terzo singolo, è forse il pezzo che sposta in maniera significativa la direzione dell’album perché l’elettronica, più presente, ed un certo piglio gabrieliano nella costruzione delle strofe mescolato a ritornelli decisamente heavy, ne fanno un brano affascinante, cupo, magnetico, complesso non soltanto nella propria struttura ma soprattutto dal punto di vista dell’ascolto, e la successiva Walk the Plank spinge ancora di più verso atmosfere dark-wave, complice un Barbieri che qui si prodiga nel creare situazioni decisamente electronic-oriented nelle quali i suoi colleghi si immergono senza alcun problema accompagnandone lo sviluppo.

Closure-Continuation è album di un’eleganza rara, un lavoro in cui la cura quasi maniacale per ogni singolo minimo dettaglio dimostra inequivocabilmente che la tecnica, portata talvolta quasi all’estremo, riesce alla fine a tirare fuori passaggi musicali che altrimenti non potrebbero mai sgorgare se non in maniera approssimativa e comunque parziale; Chimera’s Wreck, che chiude l’album ufficiale con i suoi quasi dieci minuti, cresce piano piano grazie ad uno sviluppo lento, progressivo e diviene una sorta di compendio dell’intero lavoro di cui contiene le caratteristiche principali, condensate in un brano che rappresenta, nella sua complessità, lo spirito di questo lavoro, e che farà davvero impazzire batteristi, chitarristi e bassisti: i tastieristi un po’ meno, perché Richard Barbieri è sempre comunque parco nel suo lavoro di tessitura.

La versione deluxe propone tre bonus tracks e scatta la curiosità perchè spesso questi brani risultano più un omaggio verso i fans, che un vero e proprio ampliamento dell’album classico, ma nel caso del terzetto britannico vale la pena di approfondire.

Population Three è uno strumentale ipnotico, giocato su ritmi e toni ai confini della psichedelia, un piccolo master di abilità strumentale e capacità di evocare immagini attraverso continue mutazioni della dinamica, in pratica più pezzi in uno, e ci vuole del genio per mettere in fila passaggi così differenti, mentre i due brani che chiudono il lavoro sono quelli che si possono definire pezzi di pura classe.

Never Have è assolutamente accessibile, un prog-pop di altissimo livello costruito con metodo e cura, ma anche con una linearità che consente l’ascolto anche ai non addetti ai lavori; potrebbe tranquillamente passare in radio, per andamento e durata, se le radio avessero un approccio più votato alla ricerca ed alla scoperta di suoni interessanti.

Love in the Past Tense invece rieccheggia certe produzioni del Canterbury Sound ed è quello che si avvicina maggiormente al prog classico: nessuna pesantezza, nessuna sovrastruttura, un’esecuzione sciolta, dinamica ed una dolcezza mai stucchevole, anche perché la chitarra e la voce di Wilson, i fill di Harrison e le aperture di Barbieri sono lì a ricordare che, dietro a questa apparente semplicità, c’è un notevole lavoro di cesello.

Ed allora, Closure or… Continuation? Ovvio che i fans si chiedano se quest’album rappresenti davvero l’ultimo colpo di coda, oppure l’inizio di un nuovo percorso, per i Porcupine Tree: nel tour che stanno per intraprendere saranno affiancati da un polistrumentista di grandissimo livello come Randy McStine e da un bassista fenomenale, Nate Navarro, già con Devin Townsend, quindi l’attesa è davvero alta.

Closure/Continuation è un grande album, che va ascoltato e riascoltato perché non è solo bello esteticamente, ma ha una profondità ed uno spessore importanti ed è composto tra l’altro da brani che funzionano perfettamente anche singolarmente, a vantaggio di chi è abituato alla musica liquida anche se, nel suo scorrere, ha una logica formale che comunque non diventa concept: più di un critico ha detto che, di dischi cosi, ce ne vorrebbero di più e più spesso… e non si può certo dare loro torto.

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