Pino Devita – 73 Tapepiano

(Andrea Romeo)

Da un po’ di tempo Pino Devita sta recuperando, lentamente ma con certosina costanza, tutta una serie di tappe musicali che, nel corso degli anni, erano apparse al pubblico soltanto sporadicamente: i suoi album, a partire dall’ultimo realizzato, Komersiael Melody, datato 2017, per poi viaggiare a ritroso nel tempo con Danzes, 2013, fino ad Incoherent Piano, 1994, oltre a lavori decisamente ancor più sperimentali come Prepared Piano Pyramid, ne fanno un cultore assoluto della lezione di John Cage, in primis, ma anche un attento ascoltatore, compositore ed esecutore, in linea con personaggi come Stockhausen, Schönberg, Boulez o Webern.

Negli anni il suo sguardo musicale, non si è però dedicato ad osservare soltanto il passato remoto, ma si è interessato anche ad artisti appartenenti ad un passato più prossimo, quando non addirittura contemporanei, come Pierre Henri Marie Schaeffer, Pierre Henry, Luciano BerioLuigi Nono e, in tempi decisamente attuali, lo stesso John Zorn: l’obbiettivo è sempre stato quello di inquadrare, nel modo più completo possibile, i concetti estesi di musica contemporanea e di musica concreta, in cui il pianoforte “preparato” era, ed è, un elemento essenziale.

Le direttrici che hanno contraddistinto la vicenda musicale di Pino Devita sono state due, ovvero la ricerca e la sperimentazione, e questo sin dai primi passi della sua carriera: iniziò giovanissimo, scrivendo nel 1966 (non accreditato per questioni di iscrizione alla Siae) la musica del brano Tema, portato al successo due anni dopo dai Giganti, in cui lavorò su innovative armonie, decisamente inusuali per l’epoca, cui seguì, nel periodo 1975-1978, l’esperienza con i Maad, una originale fusion ante litteram di jazz, funky, musica popolare, etnica, progressive e ritmi afro-americani.

Sino ad allora, però, l’attività musicale del compositore e pianista si era svolta nell’ambito, seppur concettualmente assai ampio, della “forma-canzone”; ciò che invece interessava maggiormente il giovane studente del Conservatorio di Milano, che già nel 1969 si applicava con grande passione agli studi di armonia, con Edoardo Farina, cembalista dei Solisti Veneti, e di dodecafonia con Armando Gentilucci, era una espressione musicale certamente più di nicchia e meno “popolare”, ovvero quella della musica contemporanea e, nello specifico, della musica concreta.

Questo approccio anche strumentale che, grazie alla manipolazione del suono all’interno del processo compositivo fu, probabilmente, l’atto di nascita della musica elettronica, laddove registrare il suono su nastro ampliava notevolmente le possibilità espressive, venne fatto proprio da Devita che iniziò, proprio allora, a lavorare su Concerto per pianoforte solo divenuto successivamente 73 Tapepiano.

Come afferma lo stesso musicista, “… allora avere un Revox a disposizione era una specie di miracolo economico ma, poterne avere addirittura due e poter fare delle sovrapposizioni, era qualcosa di stratosferico. Iniziai quindi a registrare suoni singoli, frasi musicali, toccate sulle corde, utilizzando vari pianoforti: uno Steinway mezza coda del 1952, un Tallone ed uno Yamaha verticali…”; in quel periodo, ricorda, “… suonavo con Ombretta Colli e, per un certo periodo, ho vissuto a casa Gaber; tra il mio interesse per la musica sperimentale e tutto il resto, però, c’era naturalmente un forte stridio sonoro…”.

L’abbandono della forma-canzone, per approdare ad un metodo compositivo che fosse più in linea con le proprie aspirazioni e con il profondo interesse suscitato dalla musica concreta, capace di considerare il suono nella sua completezza e di ascoltarlo in tutti i suoi aspetti, fu un passo necessario quanto inevitabile.

L’effetto più immediato fu quello di una sorta di consapevole esilio musicale stante il fatto che, già nei primissimi anni ’70, si iniziarono ad utilizzare i sintetizzatori analogici (Mellotron, Arp Odyssey, Moog, Ems VCS3) seguiti, pochi anni dopo, dai primi computer musicali (Fairlight CMI), con la conseguenza di annettere, di fatto, il concetto di musica concreta a quello più generale di musica elettronica; per chi, come Devita, amava “lavorare” esclusivamente su strumenti acustici, lo spazio si restrinse dunque in maniera consistente.

Sono sei le tracce, ed in questo caso il termine suona quanto mai appropriato, contenute in questo album, tre in studio e tre dal vivo, registrate nel leggendario Teatro Uomo, a Milano, nella sua sede originaria di C.so Manusardi: i pezzi “live” sono una semi improvvisazione per pianoforte verticale e due brani, per piano preparato, in cui vengono utilizzati differenti “strumentini” realizzati appositamente; tra quelli in studio invece, troviamo una elaborazione di musica concreta per piano e magnetofono, un intervallo semplice con cinque sovrapposizioni di tracce sonore ed una elaborazione di musica concreta per solo piano.

Come si può chiaramente notare, l’elettronica non compare in nessuno di essi, a conferma del fatto che Devita ha utilizzato, sin dagli inizi della carriera, un approccio musicale prettamente acustico ed analogico: i brani proposti risalgono al quinquennio 1969-1973, proprio il periodo in cui nasceva e si rafforzava in lui la consapevolezza di voler esplorare ambiti musicali differenti da quelli usuali, ricchi di stimoli, ma anche di incognite: un adagio, spesso ripetuto dal compositore e pianista milanese, recita: “Sperimentare o morire”, e questo perché, senza la ricerca, la sperimentazione, senza effettuare tentativi accollandosi anche il rischio di fallire e di dover tornare sui propri passi, la musica, così come qualsiasi altra arte, si rinchiude in sé stessa, ristagna e tende, inevitabilmente, a ripetersi.

Tracce che riemergono dal passato dunque, e che vanno capite, oltre che ascoltate, ma che portano con sé un profondo insegnamento rivolto al futuro, ovvero quello di andare oltre, di esplorare, per vedere fin dove ci si possa spingere, si possa osare.

(Radici Music Records, 2020)

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