Piergiorgio Ratti racconta il suo progetto per “piante soliste, sax e orchestra”

Photo: Fabiola Catalano

(Raffaella Mezzanzanica)

La natura è sempre stata una grandissima fonte di ispirazione per gli artisti e lo è ancora oggi.

Di fronte a temi di importanza fondamentale per l’intera umanità come la transizione ecologica e il cambiamento climatico, gli artisti si mettono in prima linea per contribuire a diffondere consapevolezza su cosa si possa fare per salvaguardare il nostro pianeta e renderlo un posto migliore per noi e per le generazioni future.

Ed è proprio con questa finalità che lo scorso 18 maggio, al Conservatorio di Milano, è stato presentato Green Fantasy, “concerto per sette piante soliste, sassofono e orchestra”, commissionato dalla Fondazione Società dei Concerti al compositore Piergiorgio Ratti, diplomato in oboe e laureato in fisica.

Green Fantasy, progetto che ha il patrocinio di Mite – Ministero della Transizione Ecologica, ERSAF e Forestami e il sostegno di Fondazione Banca del Monte di Lombardia e di Regione Lombardia, porta in scena sette piante autoctone (una ginestra, un carpino bianco, una lantana, un abete rosso, un ontano nero, un nocciolo, un melo), con l’obiettivo di fare ascoltare al pubblico in sala il suono delle foreste lombarde. L’opera nasce dalla volontà di sensibilizzare ed educare il pubblico al rispetto del patrimonio naturale del nostro pianeta attraverso l’arte, tenendo presente gli obiettivi definiti dall’Onu nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Attraverso Green Fantasy, Piergiorgio Ratti è riuscito a “dar voce” alla piante, trasformando in musica il meccanismo di fotosintesi.

Ho intervistato il compositore per capire meglio come gli studi di fisica lo abbiano aiutato anche nel suo approcciarsi alla musica, ma soprattutto abbiamo parlato di questo interessante progetto, unico nel suo genere, in cui le piante diventano vere e proprie sorgenti sonore.

D.: Per prima cosa parliamo un po’ di te: come è nata la tua passione per la musica?

P.R.: Sono un compositore e sono un fisico. Il mio percorso musicale è iniziato al Conservatorio di Como con il Maestro Adriano Mondini, oboista. Io, infatti, ho studiato inizialmente oboe in Conservatorio. Mi sono iscritto in Conservatorio fondamentalmente perché, sin dalla scuola media, avevo mostrato una buona sensibilità per la musica e la docente aveva spinto affinché approfondissi questa sensibilità. La scelta dell’oboe è dovuta alla figura di mio zio che, pur facendo tutt’altro nella vita (era avvocato), nella fase esplosiva degli impianti hi-fi (anni ’70/’80) aveva una profonda passione per qualsiasi tipo di ascolto e spaziava molto nella sua ricerca musicale, passando dalla musica classica a musica molto più vicina agli ambienti elettronici, fino al pop. Si era addirittura costruito un impianto hi-fi personale con un lettore LP. Mio zio è cresciuto in casa con la mia famiglia e avevo con lui un rapporto molto stretto. L’ascolto di tutta questa musica e lo stimolo di questo eclettismo musicale mi ha spinto a voler approfondire, oltre all’aspetto strumentale,  anche altri lati. Il fatto di aver trovato a casa degli stimoli così aperti e aver trovato in Conservatorio la figura di Adriano Mondini, in aggiunta ad Antonio Eros Negri per la composizione, mi hanno spinto molto ad approfondire il lato costruttivo della musica e l’esplorazione di nuovi suoni. Ad esempio, a lezione con Adriano Mondini, non c’era solo il percorso tradizionale ma, avendo visto in me una predisposizione ad ascolti diversi, lui che è jazzista, ne ha approfittato, facendomi fare molta improvvisazione e facendomi ascoltare anche album prog rock. Anche con l’oboe si tentava sempre di dare un taglio diverso. Il mio percorso, quindi, mi ha portato ad essere molto più aperto verso l’aspetto costruttivo e creativo della musica rispetto alla ricerca strumentale, cioè al semplice studio dello strumento. Dopo il Conservatorio mi sono immediatamente proiettato nel mondo della composizione fondando un’associazione, un’orchestra con un amico e collega Direttore d’Orchestra. Con questa Orchestra, che oggi si chiama Antonio Vivaldi, ho cominciato a sviluppare in maniera pratica le idee compositive che avevo iniziato durante gli anni del Conservatorio. Questo mi ha permesso di entrare in contatto con i musicisti, colleghi giovani e volenterosi che mi hanno sempre dato l’appoggio e la disponibilità per approfondire i lati strumentali e la ricerca tecnica sugli strumenti. Il mio percorso di composizione ha attraversato una fase iper-classica, avendo iniziato a scrivere  sul filone Ciajkovskijano e avendo come primo amore la tradizione tardo romantica. Da lì ho iniziato a sperimentare sempre di più. Con la crescita di questa orchestra ho avuto modo di ripercorrere la storia della musica, ritrovandomi a spiegare sempre di più la ricerca di nuove sonorità con un tipo di estetica, un tipo di costruzione e un tipo di approccio più vicino a colleghi che già avevano una sensibilità più contemporanea. Negli ultimi dieci anni di composizione il mio approccio estetico mi ha permesso di affrontare progetti “innovativi” che provano a proporre un qualche tipo di novità nell’ascolto, agganciandosi al percorso che ho sviluppato parallelamente, vale a dire quello scientifico, essendo appunto laureato in Fisica e avendo sempre avuto una vera e propria passione per il lato estetico e costruttivo che c’è dietro alla matematica. In questo modo la ricerca fisica, che non era mai confluita nella musica, in questi ultimi anni si è “piegata”, avvicinandosi ad una proposizione di spettacoli che avesse a che fare con la musica. Questo per arrivare a Green Fantasy, uno degli ultimi progetti che ho proposto. Si tratta di musica per “piante, sassofono e orchestra” ed è un pezzo che si interfaccia in questa fase di progetti particolari in cui vorrei mescolare l’aspetto scientifico con quello artistico. Ce ne sono anche altri. Ad esempio, ho aperto un percorso di ricerca per musica acustica subacquea. Questo significa che la musica non è fatta con l’elettronica ma con strumenti ottimizzati per un’esperienza subacquea e per un ascolto subacqueo. Ho poi dei progetti di opera che si avvicinano molto al tipo di sperimentazione che si fa adesso anche negli ambienti di arte contemporanea, come la Biennale o altri festival internazionali.

D.: Tu sei anche laureato in fisica. Esiste un principio fondamentale della fisica – principio di conservazione della massa – che afferma che “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Sappiamo, inoltre, che il suono stesso è un fenomeno fisico. Come ti hanno aiutato i tuoi studi nell’approcciarti ai tuoi progetti musicali?

P.R.: Non ho approcciato la musica in senso eccessivamente strutturalista. Non mi sono, quindi, avvicinato alla musica attraverso un tipo di costruzione che fosse prettamente scientifica, prettamente serialista, quindi con una parametrizzazione dei fattori d’ascolto, ma ho approcciato la musica soprattutto per quanto riguarda l’aspetto emotivo, nel senso che la finalità costruttiva è sempre stata un fattore secondario rispetto alla finalità di gusto drammaturgico. Nonostante, soprattutto agli inizi del mio percorso, non ci fosse un’influenza diretta della fisica, non posso negare che lo studio di una materia scientifica, soprattutto nell’impostazione accademica, favorisca un tipo di forma mentis che poi, in qualche modo, viene proiettata anche in altri ambiti. L’influenza che, secondo me, ha avuto la fisica è stata inizialmente un’influenza indiretta che mi ha aiutato nella costruzione delle partiture e nei momenti in cui sono critico nei confronti della mia musica. In tutto questo c’è indubbiamente un approccio che rispecchia una filosofia scientifica, attraverso il porsi delle domande e dei dubbi, nel tentare di darsi delle risposte. Tuttavia, l’essenza del brano musicale non è un’esteriorizzazione di un principio scientifico, ma c’è l’idea di una drammaturgia, di una storia. C’è sempre la volontà di raccontare qualcosa.

D.: Prima hai accennato al tuo recente progetto “Green Fantasy”, concerto per piante soliste, sax e orchestra, presentato al Conservatorio di Milano lo scorso 18 maggio. Di cosa si tratta?

P.R.: La Società dei Concerti cercava un compositore che potesse proporre un progetto attinente alle tematiche “green”, un progetto legato alla sensibilità emersa in questi anni relativamente alla transizione ecologica e alla necessità di fare qualcosa per la tutela dell’ambiente. La mia figura si è ben adattata a questa idea e mi è stata data carta bianca per inventare un progetto che fosse, in qualche modo, legato a questo tipo di tematica. Da parte mia ho sempre voluto lavorare con le piante. Ho, quindi, approfittato di questa occasione per proporre questo progetto che ha un forte contenuto scientifico, in quanto la particolarità è che, accanto alla presenza di una componente tradizionale determinata dal sassofono solista e un’orchestra, ci sono anche delle piante che suonano “live”. Nel concreto, ho inventato un sistema che permette di tradurre la risposta fotosintetica della pianta in un suono in diretta. Attraverso uno stimolo luminoso, infatti, è possibile indurre una risposta fotosintetica, cioè far fare la fotosintesi alla pianta. Lo stimolo luminoso, ovviamente, può essere governato da un essere umano. La pianta diventa, quindi, uno strumento attraverso il quale l’essere umano può ottenere una risposta biologica che poi viene mappata, viene trasformata attraverso una codifica di elettronica in quella che è una risposta sonora. Rispetto a quello che storicamente è stato fatto, la particolarità di questo progetto è che il brano è pensato per avvicinarsi, in qualche modo ad un brano tradizionale, nel senso che l’aspetto esecutivo, l’aspetto di spettacolo dal vivo è fondamentale. Le piante non producono suoni che sono stati pre-registrati. La scelta artistica su come associare qualcosa che nativamente non è sonoro con qualcosa che deve diventare sonoro e che quindi deve avere certi parametri per poter rientrare nel campo del sonoro – una vibrazione dell’aria che stia tra i 20 Hz e i 20.000 Hz – per non risultare sempre rumore bianco deve sempre avere qualche parametro che non sia casuale. La forza e l’unicità nel progetto è che l’impulso primordiale sulla pianta è quello che genera poi la risposta e che, di conseguenza, genera il suono. Questo significa che l’aspetto live è immancabile.

D.: In realtà, quindi, non si tratta di una registrazione ma di una esecuzione live.

P.R.: Esattamente. La cosa particolare di questo progetto consiste proprio nel fatto che non ci sia una registrazione ma le piante vengano stimolate “live” e quindi ogni prossima esecuzione sarà sicuramente diversa da quella che c’è stata. Si possono chiamare “piante cantanti” (singing plants). Si tratta di un termine che altri hanno già utilizzato dove la particolarità è che l’induzione è comunque figlia di un impulso umano. C’è la necessità di due esecutori che, in qualche modo, stimolino le piante e in cui l’incognita è rappresentata dall’interpretazione, quindi da come l’esecutore suona la pianta e dell’energia utilizzata nel suonarla. Il brano, proprio perché nasce come idea di sensibilizzazione partendo dal fatto che le piante siano esseri viventi, vuole essere la metafora della differenza esistente tra il regno vegetale e quello animale e come questi due regni possano interagire l’uno con l’altro. A livello drammaturgico, il sax rappresenta l’umanità, la sensibilità umana. Quindi, in qualche modo, a livello di tempi, a livello di gesti, a livello di intenzioni va a rappresentare emozioni molto diverse. La ricerca del virtuosismo tecnico vuole descrivere la creatività umana, la voglia dell’uomo di cambiare il contesto naturale per esprimere sé stesso. In contrasto, ci sono le piante che, invece, hanno un tipo di risultato sonoro che non è virtuoso ma che rappresenta la filosofia del mondo vegetale. Rispondono a livello musicale dando un’idea di tempo molto più lenta. Spesso e volentieri, attivandole con la luce, anche se la fotosintesi è immediata, il risultato sonoro è rappresentato da lunghi fasci oscillanti, quasi come se si trattasse di un respiro, quasi come se fosse un battito cardiaco molto lento. Ad esempio mappando dei piccoli punti di accensione sulla foglia quello che si rileva sono delle cascate, dei fasci di suoni che rappresentano i vari impulsi della fotosintesi. E questo rappresenta il confronto tra il mondo animale, così come rappresentato dal sax, e il mondo vegetale. C’è l’umano che si espone e, almeno all’inizio, schiaccia il mondo vegetale. Con l’acquisto della consapevolezza dell’essere umano della necessità di interfacciarsi con il mondo vegetale, l’essere umano – e così l’orchestra (che rappresenta il trait d’union tra sax e piante) – va ad imitare il mondo delle piante anche a livello sonoro. Nella parte finale del brano si crea una sorta di simmetria tra i suoni del mondo animale e quelli del mondo vegetale per dare una risposta alla questione della transizione ecologica e del cambiamento climatico. Concretamente, l’avvicinamento avviene con il sassofono che va ad imitare il suono delle piante.

Photo: Fondazione La Società dei Concerti

D.: Quanto tempo ci è voluto per completare il tutto?

P.R.: Il progetto è nato tra marzo e aprile 2021. Ci è voluto almeno un anno per lo sviluppo tecnico e per l’ottimizzazione di quello che possiamo considerare un primo prototipo della macchina che serve per trasformare l’impulso in suono e per la composizione del brano. In realtà, avevo già affrontato una ricerca scientifica precedentemente, nel senso che la fotosintesi mi ha sempre interessato, così come l’aspetto di traduzione dell’anidride carbonica in ossigeno da parte delle piante (e che l’essere umano effettua tramite le celle fotovoltaiche). L’approccio delle piante mi ha sempre interessato e per questo motivo avevo già affrontato degli studi sulla fotosintesi. Questo progetto mi è servito per fare focus e per canalizzare le energie. In totale, è stato un anno di lavoro che ha incluso la ricerca scientifica, la costruzione dei primi prototipi per la sonorizzazione e la successiva composizione del brano.

D.: La scelta delle piante da utilizzare, invece, come è avvenuta?

P.R.: L’idea iniziale è stata quella di utilizzare piante che fossero semplici da trovare a livello pragmatico per fare degli esperimenti. Sono, quindi, partito da piante da appartamento per due motivi: per prima cosa sono più semplici da trovare e questo rendeva più semplice la ricerca scientifica e, secondariamente, perché anche altri hanno avuto a disposizione più tempo per fare ricerche. Spesso e volentieri, quindi, ci sono più articoli che trattano del tipo di biologia di queste piante, di quale sia il tipo di meccanismo fotosintentico e di quali siano le curve di radianza (come le piante rispondono alla luce). Dopo essere entrato in questo mondo, la cosa che ci è sembrata interessante per valorizzare ancora di più il progetto è stata quella di utilizzare della piante che fossero autoctone. Spostarsi, quindi, a livello concettuale da piante in generale a piante che fossero ancora più legate ai nostri territori. In questa ricerca, ci hanno aiutato i vivaisti del vivaio di Curno che ho visitato con i colleghi della Società dei Concerti. Durante questa visita ci hanno presentato diverse piante. Io sono poi andato a cercare delle referenze scientifiche che mi permettessero di capire meglio quale fosse il tipo di risposta fotosintetica di una pianta rispetto ad un’altra e, all’interno di questo possibile bacino di piante autoctone, abbiamo poi scelto sette piante (una ginestra, un carpino bianco, una lantana, un abete rosso, un ontano nero, un nocciolo, un melo) che mi davano la possibilità di avere risposte fotosintetiche diverse e, anche a livello visivo/estetico, fossero sufficientemente diverse per avere una buona rappresentazione dei nostri boschi autoctoni sul palcoscenico.

D.: Proprio in merito al concetto di “territorialità” di cui hai appena parlato, il progetto è stato promosso grazie anche al patrocinio di Regione Lombardia con lo scopo di “far ascoltare al pubblico in sala il suono delle foreste lombarde”. Dopo questa prima performance al Conservatorio di Milano, sono previste ulteriori rappresentazioni in futuro?

P.R.: L’anteprima che abbiamo fatto a Benevento l’abbiamo strutturata in maniera diversa, ovvero con le piante che avevo inizialmente immaginato. Abbiamo, quindi, utilizzato le piante d’appartamento che avevo scelto per i primi studi (chenzie, pothos, bouganville, piante officinali – salvia, limone, basilico). Un’esecuzione diversa, quindi, è già stata fatta. Per ora non ci sono piani per delle esecuzioni future con un tipo di setup di piante diverso, anche perché le possibili prossime esecuzioni sono comunque previste nel territorio lombardo-veneto. L’idea è quella di riprendere questa prima esecuzione e di riproporla in queste zone ampliando, però, il numero di piante. Questo è il prossimo passo. Al momento non è prevista un’esecuzione per piante diverse.

Photo: Fabiola Catalano

D.: In molti appassionati di musica si crea sempre un certo “dramma” quando si parla di “sintetizzatori”. In effetti, si viene a creare una sorta di equivoco per cui se si utilizza questo tipo di strumenti – o, più in generale, se si utilizza l’ausilio della tecnologia –  non si possa parlare di musica. Cosa rispondi a questa affermazione?

P.R.: Già negli anni ’50 o negli anni ’60 si era sviluppata una sensibilità musicale che si allontanava da un aspetto meramente costruttivo come quello dei secoli precedenti in cui la musica era governata da un certo tipo di strumenti utilizzati in un certo modo, con certe regole. In quegli anni si era sviluppata una scuola di intellettuali (Cage, Xenakis, Stockhausen) che, nell’approccio alla composizione, ha cominciato a identificare il suono come ente generatore primario. Il suono, addirittura, viene decontestualizzato dal suo significato simbolico. Ad esempio, Cage quando parla del silenzio o del traffico delle città, evidenzia come per lui abbia significato il suono in sé e per sé, cioè quello che effettivamente si sente. Questo tipo di sensibilità ha gettato certamente le basi per lo sviluppo che, negli anni successivi, ha permesso alla musica elettronica di aprirsi e a ritornare ad una visione costruttiva e regolamentata della maniera di comporre. Per quanto mi riguarda, il sintetizzatore è uno strumento che permette di affrontare il suono in modo diverso, mediante un nuovo paradigma, non escludendo, però, che ci si possa avvicinare alla tradizione. Alla fine è importante capire come il compositore vuole utilizzare il suono e quale risultato voglia ottenere. Ci può essere, quindi, il sintetizzatore utilizzato per la generazione di suoni che vengono poi utilizzati in una composizione, oppure il sintetizzatore che è proprio l’obiettivo di ricerca e il suono stesso del sintetizzatore è la finalità ultima della costruzione compositiva. Nel caso di “Green Fantasy” io ho utilizzato il sintetizzatore semplicemente come strumento, nel senso che quello che mi interessava era poter generare dei suoni. Infatti, se si vuole partire da qualcosa che non è sonoro e renderlo sonoro, il sintetizzatore è lo strumento primario. L’obiettivo, però, è stato quello di fondere il suono del sintetizzatore con una ricerca sonora, timbrica che si avvicinasse a strumenti tradizionali, quindi il sassofono.

D.: Viviamo in un mondo in cui troppo spesso si parla di “sostenibilità” e spesso in modo del tutto superficiale. La musica può essere davvero il mezzo più adatto per sensibilizzare su questo tema, così importante per il futuro del nostro pianeta?

P.R.: Con questo brano ritengo di essere stato molto preciso. Non ho parlato di “sostenibilità” ma mi sono avvicinato ai temi della transizione ecologica e al cambiamento climatico. Ho tentato di essere preciso concettualmente perché reputo che, in qualche modo, il compito degli artisti – intesi come coloro che, attraverso una rappresentazione di qualche tipo vogliano comunicare con qualcun altro – sia quello di porsi il problema di capire quale sia un possibile mondo futuro e cercare di fornire delle risposte o dare dei messaggi, agganciarsi in maniera attiva a delle istituzioni che siano virtuose e che vogliano andare in una certa direzione. La scelta del contenuto etico dell’opera credo sia molto importante. Con “Green Fantasy”, pur non dando ovviamente alcuna risposta concreta al problema del riscaldamento globale, l’ottica e l’attenzione del brano che vanno a fare focus sulle piante, insistendo sul fatto che le piante siano essere viventi e che, come tali, reagiscano anche istantaneamente ad un certo tipo di stimolo, ci ricorda come le piante siano fondamentali per la nostra sopravvivenza. Si crea, quindi, un link con quello che io penso sia il modo per poter risolvere il problema del riscaldamento globale che è quello di trovare un’unione, un punto di contatto che ci permetta di essere più globali, più collettivi come società umana, ma anche come esseri nel mondo. Il rapporto con le piante è un tema che, dal mio punto di vista, può essere affrontato per essere poi condiviso con il pubblico, in modo che possa attivare anche delle altre idee.

D.: Hai composto musica da camera, musica per orchestra, musica per strumenti solisti e un’opera, Alter Amy. Vorrei soffermarmi proprio su quest’ultima perché mi ha davvero incuriosito. Mi racconti un po’ come hai sviluppato questo progetto?

P.R.: Alter Amy è un’opera in senso ampio, in cui è presente anche una componente di musical grazie alla presenza di uno dei due cantanti tra cui un tenore, con una voce da tenore da musical. La volontà era quella di comporre un’opera che comprendesse diversi tipi di linguaggio, caratterizzata dal fatto di avere una cantante di musica leggera che interpreta Amy/Bradamante (Amy nella realtà e Bradamante nel sogno), un cantante lirico, un baritono (il padre di Amy nella realtà e Alcina nel sogno) e una voce maschile più vicina al mondo del musical (il fidanzato di Amy nella realtà e Ruggero nel sogno). Alter Amy è un’opera in cui la volontà, la finalità è quella di esaltare il vitalismo, cioè rileggere in modo aperto la vicenda di Amy Winehouse (un rimando alla storia della vita di Amy Winehouse che poi ha avuto una tragica fine). Di fronte al pensiero comune che lei fosse una persona felice, soddisfatta, l’opera vuole indagare quale siano stati gli aspetti che, all’interno del suo percorso artistico, l’hanno portata all’autodistruzione. In questo contesto, l’Orlando Furioso è parte fondamentale di questa trasfigurazione tra storia ispirata alla realtà e grande classico. Il confronto con il grande classico – che, di fatto, rappresenta l’umanità con i suoi pregi e difetti – permette di indagare la storia di Amy Winehouse e, al tempo stesso, di capire come nella letteratura e nella narrativa queste questioni vengano effettivamente risolte. Alter Amy è un’opera totale che va ad eviscerare la vita di Amy Winehouse per trasfigurarla in un sogno in cui la stessa Amy diventa la Bradamante dell’Ariosto e, attraverso questo percorso di formazione interno, si arriva ad una rivalutazione di quanto sia successo nella realtà. Alter Amy è un’opera di circa due ore, pensata per essere suddivisa in due atti, anche se, durante la pausa c’è comunque un pianista che continua a suonare sul palcoscenico. E’ un tentativo di sperimentazione in cui l’elemento principale è rappresentato dalla musica live attraverso un’orchestra di una ventina di elementi, e in cui sono presenti anche un attore, tre danzatori che sono dei personaggi all’interno dell’opera e anche un bambino, che interviene due volte.

D.: Alter Amy comprende un mix di generi musicali diversi. Alcuni “puristi” del genere classico potrebbero rimanere senza parole di fronte a questo tipo di “contaminazione”. Qual è la tua opinione in merito?

P.R.: Io ho una visione abbastanza aperta. Sono in una fase di scoperta della verità e non di affermazione della verità. Io parto da un approccio molto classico, per la tradizione classica. La mia sensibilità ha le radici in quel mondo. Ho scritto tanti brani che affondano le loro radici nel mondo classico. Uno dei miei ultimi progetti è stato la composizione del settimo brandeburghese. Si tratta di un brano che riprende i sei Concerti Brandeburghesi di Bach e, attraverso un meccanismo di interpolazione ed estrapolazione, tenta di avvicinarsi con il primo movimento a quello dei brandeburghesi, per spingere poi con il secondo movimento verso qualcosa che si sposti più sul contemporaneo. Sostanzialmente, però, è una brano estremamente tradizionale. L’eclettismo e la digestione di altri generi fanno parte di una sperimentazione. Significa avere voglia di esplorare altri mondi. Da musicista non posso tirarmi indietro dal voler esplorare anche altri tipi di estetica, altri tipi di suoni. Ciò non significa che, qualora ci sia la necessità, sia compositiva sia da parte del pubblico, di restare in certi mondi, evitando accavallamenti, questo possa essere fatto. L’irrigidimento nell’ascolto credo possa significare che qualcuno abbia già delle verità e, quindi, non sia disposto a mettere in discussione queste verità nel confronto con qualcosa che non necessariamente debba essere più bello o più significativo ma, semplicemente, possa essere diverso o interessante per altri aspetti.

D.: Tornando a “Green Fantasy” sono previste delle altre rappresentazioni dell’opera? Ci sono già delle date?

P.R.: Al momento non ce ne sono, ma siamo in trattativa per definirle. Si parla comunque del 2023.

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