Pearl Jam – Ten

(Andrea Romeo)

Volendo spiegare il concetto di “partenza con il botto”, un buon esempio in ambito musicale può tranquillamente essere considerato il debut album di una (allora) giovane e sconosciuta band di Seattle.

Verso la metà degli anni ’80, il bassista Jeff Ament ed il chitarrista Stone Gossard iniziano a lavorare insieme nei Green River, poi incrociano un altro chitarrista, Mike McCready, registrano un demo che, grazie all’intervento dell’ex batterista dei Red Hot Chili Peppers, Jack Irons, giunge nelle mani di Eddie Vedder, benzinaio in quel di San Diego e cantante dei Bad Radio, che mette mano ai testi; con l’arrivo di Dave Krusen, alla batteria, la line-up dei Pearl Jam è, finalmente, al completo.

I cinque mettono insieme anni di esperienza sui palchi, Vedder trova ed esplora una vena poetica realista, quasi sofferente, scrivendo spesso di sé, anche se in terza persona, le chitarre di Gossard e McCready si fondono a meraviglia, giocando spesso di sponda l’una con l’altra… la chimica c’è, la musica che scaturisce è di una spontaneità quasi struggente, ed il 27 agosto 1991 arriva nei negozi un vero e proprio capolavoro.

Ed ecco allora Ten, con le sue undici tracce, che sono undici potenziali singoli, un debutto che lascia, eccome, il segno: la rabbia, di Once, Even Flow, il grido di dolore che sgorga da Alive, Why Go, con le sue pause ed i suoi eco, Black, malinconica e struggente, la dolente Jeremy, Oceans, le raffiche di note che fuoriescono da Porch, Garden, in cui la band sembra voler scrutare nell’oscurità profonda, la nervosa Deep, l’urlo di Release; sono canzoni che, altre band, avrebbero forse messo insieme nel corso degli anni, mentre i Pearl Jam le “sparano” fuori tutte insieme e subito, diventando immediatamente delle stelle di prima grandezza, non solo nell’ambito del panorama grunge, ma condizionando, inconsapevolmente ed in maniera significativa, la loro intera carriera.

Quest’album diventa, per loro, un successo clamoroso, vendendo all’incirca quindici milioni di copie (ed anche oltre, ad oggi) in tutto il mondo, mentre per i fans si trasforma in una sorta di totem, la pietra di paragone con cui confrontare, da lì in poi, ogni uscita discografica del quintetto: un peso non da poco, che la band non si scrollerà mai più di dosso

Le sessioni di registrazione di Ten, peraltro, producono parecchio materiale che in seguito non entra nell’album: Wash e Yellow Ledbetter, una traccia intitolata Alone che ebbe diversi sviluppi negli anni successivi, Dirty Frank, proposta come una b-side, ed ancora Footsteps, Hold On, poi Brother, Breath e State of Love and Trust, ed infine Just a Girl, 2,000 Mile Blues ed Evil Little Goat.

Molti di questi brani trovarono posto nella successiva ristampa dell’album, datata 2009, ma anche, qualche anno prima, all’interno del doppio Lost Dogs, che raccoglie outtakes provenienti dai precedenti lavori, b-sides dei singoli, diverse cover ed altro materiale inedito, e che venne pubblicato l’11 novembre del 2003.

Ten uscì durante un anno davvero cruciale, per il grunge, perché proprio in quell’anno venne pubblicata una serie di album profondamente significativi: Nevermind, dei Nirvana, Badmotorfinger, dei Soundgarden, Temple Of The Dog, del gruppo omonimo, Every Good Boy Deserves Fudge dei Mudhoney, Uncle Anesthesia degli Screaming Trees, Pretty on the Inside, delle Hole.

Un periodo davvero strano, gli anni ’90, strano, controverso e, per certi versi, interlocutorio: in molti, sia fra i critici che fra gli addetti ai lavori, accusarono il grunge di aver, in buona sostanza, “ammazzato” l’hard rock, nelle sue varie declinazioni (heavy metal, hair metal, trash metal e power metal…) anche se, probabilmente, la verità, o per lo meno una buona parte di essa, potrebbe risiedere altrove.

Il rock, proprio in quel periodo, dopo essere divenuto ipertrofico, a livello di notorietà, egomania dei protagonisti, spettacolarizzazione esteriore e presenzialismo sui media, laddove MTV attraversò il suo periodo di massima diffusione, sbarcando anche in Europa, iniziava decisamente a perdere colpi, ed a farlo in maniera evidente: ripetitività, calo di ispirazione, prevalenza della forma (spettacoli dal vivo sempre più rutilanti, tecnologici e, diciamolo, spesso pacchiani…) rispetto alla sostanza, ovvero la musica stessa.

Il grunge, molto probabilmente, riportò quel rock ad una dimensione più vera, più genuina, più autentica, e lo fece su un duplice piano: Ten, così come Nevermind, erano album di una onestà e di una integrità cristalline, eppure divennero rapidamente dei best sellers musicali, coniugando il valore artistico con i numeri delle vendite, fatto invero curioso per un genere “periferico” che, nato nei sobborghi, si era sviluppato volutamente e pervicacemente attraverso le etichette indipendenti, ed aveva involontariamente dato forma al concetto primigenio di “alternative rock”.

Nel momento in cui Vedder e compagni cantano di depressione, suicidio, solitudine, raccontano di omicidi, questioni sociali, o fanno riferimento a storie di cronaca veri, non possono affatto fingere, e questo perché, attraverso quelle vicende, ci sono passati, direttamente o indirettamente: hanno avuto amici, caduti vittime di queste situazioni, talvolta le hanno vissute di persona, e provate sulla pelle, ed hanno sentito la necessità, l’urgenza di raccontarle, peraltro senza alcun intento moralistico.

Questo impellente desiderio espressivo si materializzò in una attività dal vivo assolutamente impressionante, sia come headliners che come openers: un estenuante tour nordamericano, la aperture per i Red Hot Chili Peppers, poi un tour europeo, un altro ancora in Nord America, ed ancora l’Europa, con i passaggi al Pinkpop Festival (Paesi Bassi) ed al Roskilde Festival (Danimarca) fino a mettere in fila alcune serate al Lollapalooza, il festival itinerante letteralmente inventato da Perry Farrel, cantante dei Jane’s Addiction e dei Porno for Pyros, manifestazione che trainò il grunge, e l’alternative rock, portando la cultura underground, proveniente dalla East Coast e dalla West Coast degli Stati Uniti, nel cuore stesso della nazione.

Un anno, quello a cavallo tra il 1991 ed il 1992, che fu di fatto la chiave in grado di aprire, ai Pearl Jam, le porte per una lunga e fortunata carriera, che ovviamente non può né potrà mai prescindere da quel loro primo, e fondamentale, lavoro.

(Epic Records, 1991)

Print Friendly, PDF & Email