Pearl Jam – Gigaton

(Andrea Romeo)

Ci sono degli album che, ancor prima di nascere, già si sa che faranno discutere, creando intorno a loro più di uno schieramento di appassionati pronti a sostenere le proprie tesi; se poi, l’uscita, viene preceduta da tre singoli come Dance of the Clairvoyants, Superblood Wolfmoon e Quick Escape ognuno, in maniera differente, spiazzante ed in un certo senso inatteso, l’album non solo farà discutere, ma verrà letteralmente atteso al varco.

Ogni uscita dei Pearl Jam è sempre stata fonte di discussioni infinite, probabilmente, anzi sicuramente, per il fatto che, dopo un debutto fragoroso quale è stato Ten, pubblicato ormai ben ventinove anni fa, qualsiasi altro album è sempre stato vissuto, non tanto dalla band, quanto invece dal pubblico, come una sorta di sfida a fare meglio.

Backspacer e Lightning Bolt, in verità, qualche dubbio lo avevano lasciato, stante un percepibile calo di creatività, che comunque dopo venti e passa anni ci stava, ed una certa tendenza a rigiocarsi carte simili, magari cambiandone i dettagli, e ci stava anche questo; ma la sensazione che, la band, rischiasse di imboccare, anche se in punta di piedi, la parabola discendente era abbastanza palpabile.

Certamente, The Fixer, Just Breathe, come anche Mind Your Manners o Sirens, erano, e sono, a pieno titolo, brani in pieno “stile Pearl Jam”, ma c’era la netta impressione che ciò non potesse davvero più bastare.

Ed allora i cinque “ragazzi” di Seattle, hanno deciso di cambiare, se non tutto, davvero molto e di fare, idealmente, un passo indietro, forse due: Gigaton va ascoltato bene, almeno un paio di volte, e questo per poter esprimere una valutazione che abbia un senso, al netto di polemiche, rimpianti o dispute di qualsiasi genere.

Si, Dance of the Clairvoyants è un brano che rieccheggia certamente la new wave, ed il post punk (qualcuno ha detto Television?), incluse le loro venature funk, decisamente anni ’80… perchè no?

Si, Superblood Wolfmoon riabbraccia il lato più noise del grunge anni ’80, ma anche qui, gli echi della new wave, al netto dei suoni ruvidi, ci sono tutti.

Si, Quick Escape ha quell’appeal scarno ed essenziale con cui, l’originario indie-rock, aveva attratto legioni di fans.

Si potrebbe, con una sorta di iperbole spazio-temporale, parlare di questo lavoro come di una sorta di prequel, rispetto a Ten, di un album un po’ più levigato, opera di una band che, dopo la fine degli eighties, avesse poi deciso di irrobustire i propri suoni.

“Come sapete”, ha affermato Jeff Ament, “ci siamo presi un po’ di tempo e questo ci ha permesso di tentare cose nuove. Dance è una tempesta perfetta di sperimentazione e vera collaborazione. Attorno al pattern ritmico di Matt abbiamo mescolato un po’ la strumentazione e costruito un gran pezzo, che ha uno dei miei testi preferiti scritti da Eddie. Vi ho detto dell’incredibile parte di chitarra di Mike, e che Stone suona il basso? Abbiamo imboccato una nuova strada, dal punto di vista creativo, ed è eccitante.”

Una sorta di ritorno al futuro, insomma, un ripartire dalle proprie origini, anzi, da un pochino prima, rispetto alle proprie origini, per poter riscrivere un percorso: perché i Pearl Jam ci sono, ci sono eccome, nelle atmosfere decadenti e rabbiose di Who Ever Said, nel guardarsi dentro, quasi dolente, di Alright, nella lisergica, desolata e, perché no psichedelica, Seven O’Clock, che poggia su chitarre acustiche e tastiere.

Ed ancora, Never Destination, che si inserisce in quel solco per il quale, brani come Insignificance e Riot Act, avevano fatto da apripista, e nel quale l’influenza degli Who più maturi risulta davvero percepibile, cui fa seguito Take The Long Way, scritta non certo a caso da Matt Cameron,con i suoi tempi dispari che schizzano fuori con la stessa energia dei Soundgarden dei tempi d’oro, e la curiosa Buckle Up, dall’andamento terzinato, simil-shuffle, una ballad diversa dal solito, certamente differente dalle classiche ballad cui il rock ci ha abituato.

Comes Then Goes riprende, ed estremizza, il discorso acustico iniziato con Seven O’Clock, ma strizza l’occhio anche alla produzione solista di Eddie Vedder, e non avrebbe affatto sfigurato fra i brani di Into the Wild; simpatica, e non certo casuale, la citazione, ancora una volta, riferita agli Who: “… Can I try, one last time? Could all use a saviour, from human behaviour sometimes, and the kids are alright

Si va a terminare con la malinconica Retrograde, che chiude l’album ponendo, non solo dal punto di vista musicale, ma soprattutto da quello dell’esecuzione, una sorta di lunga fila di puntini di sospensione quasi come se, la band, volesse lasciar proseguire la musica, mentre abbandona la scena scivolando nell’ombra.

Ci sono tutto il carattere, la profondità, lo stile, la storia, ma anche la maturità dei Pearl Jam, in Gigaton, un lavoro che, come già accennato, guarda indietro, quasi a voler rassicurare, ma lo fa per gettare un ponte verso il futuro: è un po’ come se, una porta che si era voluta lasciare aperta, anche se non proprio del tutto, si stesse lentamente ed inesorabilmente chiudendo.

E, probabilmente, nonostante una qualche inevitabile malinconia, la saggezza suggerisce che in fondo sia giusto così.

(Monkeywrench/Republic Records, 2020)

Print Friendly, PDF & Email