Pat Metheny – From This Place

(Andrea Romeo)

Che Pat Metheny potesse avere voglia, davvero tanta voglia, di tornare ai suoni del suo Group, era probabilmente un’eventualità abbastanza intuibile: l’ultimo lavoro della celeberrima band risaliva, ormai, all’uscita di The Way Up, datata 2005, e le ultime apparizioni live al periodo immediatamente successivo.

Nei dieci e più anni che sono intercorsi tra il “congelamento” della band, e l’uscita di questo nuovo lavoro, From This Place, sono accadute molte cose: alcune collaborazioni importanti, con Brad Mehldau, Anna Maria Jopek, Gary Burton, Cuong Vu, Chris Potter, un omaggio alla musica di John Zorn, l’elaborazione dell’ambizioso e “futuristico” progetto Orchestrion, la nascita della Unity Band, come a dire che, il chitarrista statunitense, non è certo rimasto con le mani in mano.
Il fatto che il Pat Metheny Group potesse tornare era certamente una possibilità dopodichè, gli episodi che hanno modificato, probabilmente, tutti i programmi, sono stati quelli della malattia, e della successiva scomparsa, di Lyle Mays, pianista, tastierista e partner artistico storico di Metheny.

Ed allora è cambiato davvero tutto, il nickname storico è stato momentaneamente accantonato e, questa nuova uscita, porta il solo nome del musicista americano: al suo fianco il fido batterista Antonio Sanchez che lo affianca ormai da quasi vent’anni, e precisamente dall’uscita di Speaking of Now, 2002, ma soprattutto tanti volti nuovi per una band che, pur non essendo il Group, vi somiglia davvero tanto: Gwilym Simcock, al piano, che propone uno stile più essenziale e scarno, rispetto a quello di Mays, Linda May Han Oh, al contrabbasso, è anch’essa musicista essenziale, solida, ma capace di trascinare i brani quando le viene richiesto; ad essi, si affiancano Luis Conte, alle percussioni, Gregoire Maret, all’armonica, Meshell Ndegeocello, alle voci e l’orchestra The Hollywood Studio Symphony, diretta da Joel McNeely.

From this Place è nato, letteralmente, in studio, e questo perché Metheny ha prima introdotto i nuovi musicisti al proprio universo artistico, in modo da farli entrare in quel particolare mood, e lo ha fatto suonando dal vivo ampie parti del proprio repertorio dopodichè, una volta entrato in studio con loro, ne ha raccolto le suggestioni, ne ha condiviso le idee, creando un vero e proprio lavoro di gruppo, esattamente come aveva sempre fatto con la sua storica band… E la cosa, oggi come allora, ha funzionato, e questo perché, quando hai a che fare con grandi musicisti, capaci di mettersi a disposizione ma anche di raccogliere gli stimoli, e di proporre una propria visione, difficilmente non si centra l’obbiettivo.

Il risultato è un lavoro che si potrebbe definire misterioso, che si scopre poco alla volta, perché la band non offre mai troppi punti di riferimento, non si àncora su qualche riff ma preferisce sviluppare continuamente i brani al punto che, l’idea che le dieci tracce contenute siano una sorta di spontanea jam session, pare davvero tutt’altro che improbabile.

Si parte con la suite di America Undefined, nella quale è il pianoforte a dettare in modo autorevole buona parte delle melodie, mentre la chitarra rimane un passo indietro, anche quando il tocco, lo stile ed il timbro di Metheny, emergono in modo inequivocabile; è un brano che si avvia, prende quota, rallenta, e riparte più volte, e questo pare davvero essere il tratto principale di questo lavoro: un work in progress in cui le idee sembrano quasi “srotolarsi”, volta per volta, senza che mai il gruppo corra il rischio di perdere il filo del discorso, malgrado le trame proposte siano intricate, e di non immediata lettura.

Atmosfere quiete, a tratti quasi ovattate, come quelle del brano iniziale, o di Same River, si alternano a momenti di puro ed intenso groove, Wide and Far, Pathmaker ed Everything Explained; ogni brano cresce lentamente, attraverso continue repliche di fraseggi, ed attraverso questa sorta di scivolamento continuo giunge al suo apogeo, dopodichè si adagia e scorre verso la sua conclusione, magari caratterizzata da un singolo strumento che si incarica, in maniera figurata, di “chiudere la porta”: il finale di Wide and far, lasciato all’interpretazione del contrabbasso di Oh, ne è un esempio magnifico.

Pat Metheny, parlando dell’album, ha affermato:

Questo album rappresenta un periodo della mia vita, come tutti i dischi del resto. Ma in questo caso è stato per me qualcosa di diverso, suonavo le mie composizioni del passato e ho avuto la voglia di radunare tutti gli artisti che hanno collaborato con me o che stimavo particolarmente per realizzare questo disco…

e questa dichiarazione si presta a molte interpretazioni, assolutamente soggettive: l’impressione che si ricava dall’ascolto è quella di un musicista che abbia voluto seriamente rimettersi in gioco, su una scacchiera a lui nota, ma con dei “pezzi” differenti, per capire se fosse possibile ricreare una partita già giocata, ma facendolo con mosse differenti.

Insomma una sorta di Pat Metheny Group 3.0 che, pur mantenendo l’approccio di quello originario, giocasse su un piano parallelo, ma non uguale, un piano in cui le peculiarità dei musicisti imprimessero loro, più che la chitarra dello stesso Metheny, le impronte più importanti; e l’andamento stesso dei brani, gli adagio, le pause e le impennate improvvise, gestite sempre coralmente dalla band, sono davvero il segno distintivo che maggiormente segna questo album.

Poi, qua e là, ma sempre con molta discrezione, “quella” chitarra synth che, di Pat Metheny, è il marchio, indelebile ed incancellabile, e che richiama inevitabilmente altri paesaggi, altre storie, altri tempi.

Un grande ritorno, ricco di stimoli quanto “moderato” nei toni in cui, un gruppo di musicisti di livello assoluto, pare abbia voluto rincorrersi, l’uno “agganciando” l’idea lanciata da quello precedente, per poi svilupparla e “passarla” oltre.

(PMG Productions/Nonesuch Records, 2020)

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