Nick Mason’s Saucerful Of Secrets – Live at The Roundhouse

(Andrea Romeo)

Per Roger Waters, David Gilmour e Nick Mason, i Pink Floyd sono, ragionevolmente, un discorso chiuso… in linea di massima si, ma in fondo anche no, perchè Waters ha recuperato, per i suoi “live”, parecchio materiale di quella che potremmo definire la “fase di mezzo”, diciamo fra il 1972 ed il 1979, mentre Gilmour ha spaziato più frequentemente anche verso il materiale successivo.

Mason ha scelto un altro tipo di percorso che lo ha condotto a considerare la prima fase, della storia della band, quella che va dai lavori con Syd Barrett sino più o meno al 1972… i Pink Floyd più psichedelici, dunque, i più stranianti, quelli dei primi esperimenti con i light show, quelli che divennero, quasi senza volerlo, gli esponenti di punta della Londra underground di fine anni ’60, definita poi genericamente come la “swinging London”.

L’operazione messa in atto da Mason può essere serenamente definita in vari modi: nostalgica, certamente, anche se fino ad un certo punto, ma filologicamente rigorosa e curata nei minimi dettagli; quello che è certo è il fatto che, il batterista di Birmingham, si è occupato di recuperare un universo sonoro che era rimasto a lungo nell’ombra, oscurato dai grandi successi degli anni ’70, un repertorio che solo episodicamente, ed in minima parte, aveva fatto capolino nelle esibizioni dei suoi due colleghi.

Nel giro di un paio d’anni la band, ribattezzata Nick Mason’s Saucerful Of Secrets, ha realizzato una importante serie di esibizioni dal vivo, ma era quasi destino che il concerto da immortalare, in audio ed in video, dovesse avere luogo in uno dei locali che, per i Pink Floyd, hanno costituito un pezzetto importante della propria storia: la band, infatti, verso la fine del 1966, partecipò alla festa di inaugurazione della rivista International Times, nell’ambito di uno di quegli happening che, abbastanza frequenti allora, divennero leggendari, e lo spettacolo si svolse presso The Roundhouse, un ex edificio industriale di Camden Town, costruito nel 1846 che, dagli anni sessanta, viene utilizzato come sala da concerto.

E proprio in questo spazio sono tornate a rieccheggiare le note di brani persi fra le nebbie del tempo: Interstellar Overdrive, Astronomy Domine, Lucifer Sam, Fearless, Obscured by Clouds, When You’re In, e poi Remember a Day, Arnold Layne, Vegetable Man, If, Atom Heart Mother, The Nile Song, ed ancora Green Is the Colour, Let There Be More Light, Childhood End, Set the Controls for the Heart of the Sun, See Emily Play, ed infine Bike, One of These Days, A Saucerful of Secrets e la conclusiva Point Me at the Sky.

Scaletta davvero da brividi, nella quale la figura di Barrett si materializza e si prende buona parte della scena, ma soprattutto la sensazione palpabile che la band sia riuscita a calarsi in maniera totale nel mood di quel periodo.

Già, la band… in linea di massima ci si attenderebbe, magari, un gruppo di “vecchi marpioni progpsichedelici”, ed invece Mason va a cercare, trova e mette insieme un gruppo che definire eterogeneo è davvero quasi eufemistico: Lee Harris, chitarrista ed ex-componente dei Blockheads di Ian Dury, Dom Becken, tastierista, ma soprattutto produttore, che ha lavorato si con Rick Wright, ma anche con Katherine Jenkins, Brian Molko (Placebo), Just Jack, Liberty X, The Spice Girls e Johnny Marr (The Smiths), Guy Pratt, bassista e compositore, già collaboratore di Madonna, Jimmy Nail, Natalie Imbruglia, Michael Jackson, Ronan Keating, Rod Stewart, Dana Gillespie, Robert Palmer, Deborah Harry, Stephen Duffy, Brian Ferry e dei Pink Floyd, nella versione post-1987, ed infine l’uomo che, in questo tipo di contesto, davvero non ti aspetteresti, ovvero quel Gary Kemp chitarrista e tastierista degli Spandau Ballet, e che qui diviene anche cantante; strano ma vero, questo insieme di musicisti dalla storia e dall’attitudine così differenti, funziona, e funziona alla grande.

Come già detto, il cuore del progetto è stata la grande capacità espressa dai cinque compagni di viaggio di calarsi in ciò che i Pink Floyd erano, fra il 1966 ed 1l 1972, operazione probabilmente non semplice neppure per Mason, che ha dovuto recuperare un approccio semplice, molto genuino e sincero che, nel tempo, e con il successo planetario conseguito dalla band, era andato in buona parte perduto: non è certo un caso il fatto che, i brani proposti, si fermino alle soglie di The Dark Side of the Moon, che viene considerato come una sorta di confine, quel “turning point” che ha mutato, radicalmente e definitivamente, la storia della band inglese.

“Back to the roots”, insomma, incidentalmente in un periodo in cui, le vicende planetarie e l’isolamento forzato al quale il mondo si è dovuto costringere, hanno permesso a molti di recuperare frammenti del passato ai quali togliere il velo di polvere: inutile dire che, molto del materiale proposto, non dimostra affatto i cinquant’anni ed oltre che si porta addosso, e non soltanto per il brio e la disinvoltura con il quale la band se ne è appropriato e lo ha riproposto.

Soprattutto i brani di Barrett, anagraficamente i più “antichi”, suonano serenamente come fossero composizioni cantautorali odierne, tanto che non stupirebbe affatto fossero oggetto, da parte di artisti dei giorni nostri, di operazioni di remix, campionamenti o quant’altro.

Nell’attesa di vedere se ciò dovesse davvero accadere, e con quali esiti (sui quali non ci sono ovviamente garanzie…), molto meglio ascoltare queste versioni, certamente fedeli alle originali, ma proposte con una freschezza, anche strumentale, cui non è affatto estraneo un Nick Mason che ha evidentemente riscoperto il piacere di suonare la batteria, senza pressioni e senza doversi occupare di gestire rapporti complicati fra i membri di un gruppo.

Tranquillo dentro, tranquillo fuori… si vede e si sente.

(Sony Music, 2020)

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