Morphine – Cure For Pain

(Andrea Romeo)

Thanks, Palestrina. It’s a beautiful night. It’s great to be here and I want to dedicate a super-sexy song to all of you.

Sono queste le ultime parole pronunciate, sul palco della manifestazione Nel Nome del Rock, tenutasi a Palestrina il 3 luglio del 1999, da Mark Sandman che pochi attimi dopo si accasciava sul palco per non rialzarsi più: aveva solo 46 anni ed era indiscutibilmente fra i più interessanti esponenti del panorama alternative rock Usa.

La storia dei Morphine, realtà assolutamente anarchica nel contesto dell’alt-rock statunitense, inizia a Boston nel 1989 quando, in piena esplosione grunge, il cantante, e bassista di Newton Mark Sandman, reduce da diverse esperienze underground insieme a Treat Her Right, Sandman, Candy Bar, Hypnosonics, Treat Her Orange, Supergroup (con Chris Ballew) e Pale Brothers, incrocia il sassofonista baritono di Portland Dana Colley, uscito dal gruppo post-punk dei Three Colors ed il batterista e percussionista di Cincinnati Jerome Deupree, già membro del gruppo new wave californiano degli Humans.

Formazione decisamente atipica, resa ancor più inconsueta dall’approccio strumentale di Sandman che ha sempre utilizzato un basso elettrico a due corde (Re e La), accordato per quinte o, alternativamente, per ottave, suonato per lo più con il bottleneck, attrezzo tipico dei chitarristi slide che gli ha permesso di creare un timbro sonoro del tutto peculiare, divenuto un vero punto di riferimento per musicisti come Les Claypool, Josh Homme e Mike Watt.

La vita personale del leader (fu accoltellato al petto sul suo taxi e perse prematuramente due fratelli) ha forse influenzato l’approccio della band sin dal primo album, Good, pubblicato dalla Accurate/Distortion nel 1992, lavoro malinconico, nostalgico ma anche aggressivo, ricco di atmosfere noir, originale al limite della stravaganza; ma è proprio con il successivo Cure for Pain, uscito nel mese di Settembre dell’anno successivo, che la band fissa, in maniera definitiva, la propria cifra stilistica.

Tredici tracce che disegnano i contorni di un universo intimista, la cui porta d’ingresso è rappresentata dalla trance sospesa di Dawna, introduzione di sax, brevissima ma già rivelatrice di ciò che verrà dopo, quando arriva Buena, che accompagna l’ascoltatore in una immaginaria notte, attraverso angoli bui, grazie ad uno slide/walking bass cui fa da contraltare il sax, prima in punta di piedi, poi sempre più presente.

Un po’ Waits, un po’ Cohen, un po’ Reed ma nulla di proprio simile, perché l’audacia della band è impressionante e va così al di là delle mode da risultare quasi anacronistica nello schivare il tempo: I’m Free Now è una ballad, certo, ma gli accenni bluesy la rendono più rassicurante che tranquilla, grazie anche a quel bordone di basso che, percorrendo frequenze sotterranee, la conduce alla conclusione senza ansie.

Tutta un’altra questione All Wrong, che vira verso una sorta di sospensione noir, ai limiti della blaxploitation, a metà strada tra James Ellroy e Gordon Parks, grazie agli accenni funk e ad un sax tanto mellifluo quanto dispensatore di suoni psichedelici; e non è finita perché Candy è ancora più “atmosferica”: basso dal suono circolare, sax che suona in punta di dita, la colonna sonora della solitudine, della lontananza…

Vogliamo parlare di “clubbing”? Ecco A Head with Wings: fumo di sigarette, tintinnare di bicchieri, ambiente rarefatto, chiacchiericcio sommesso: c’è tutta l’America dei jazz club narrata in tre minuti e mezzo, cui segue l’onirica e zeppeliniana In Spite of Me, un po’ Going to California, tanto Eddie Vedder, versione Into the Wild ma con quasi quindici anni di anticipo, grazie anche al mandolino di Billy Ryan.

Thursday è avvolgente, ammiccante, tribale, un flusso continuo di percussioni e basso che lascia attoniti, quasi ipnotizzati, non fosse per gli improvvisi break di sax che regala Colley, che anticipa la title track, Cure for Pain, slow rock che si potrebbe considerare mainstream perché no, senza perdere un grammo della propria malinconica solennità.

Parte Mary Won’t You Call My Name? ed ecco sgorgare lo swing: Sandman, il crooner che racconta, talora sommessamente, talvolta in modo accorato, Deupree invece lo chauffeur che conduce con polso fermo, Colley mette in fila brevi sottolineature, insomma la punteggiatura di una narrazione.

Let’s Take a Trip Together è un viaggio onirico, un trip psichedelico che rispedisce la band negli anni ’60 ed in cui la batteria, affidata per l’occasione a Billy Conway, che collaborerà spesso con la band, detta un andamento ossessivo, sensuale, ammiccante, perfetto prodromo a Sheila che è pura carnalità, erotismo spinto e, testo alla mano, un flash sadomaso non da poco: “Sheila has a cat, she pets the cat, puts a spell on the cat, A beautiful cat… She takes the cat , looks him in the eyes, Sheila, Sheila! Oh most gracious of being, oh most gracious of being, I’m yours to command, my queen… Sheila has a cat, she pets the cat, puts a spell on the cat, runs her fingers down his back…

Si chiude con Miles Davis’ Funeral, di fatto il seguito di Dawna: chitarra sospesa in una sorta di vuoto spazio/temporale e percussioni appena accennate capaci di creare una dissolvenza, musicale e visiva che lascia davvero attoniti.

Seconda parte di una trilogia che, oltre a Good, presenterà nel 1995 l’album Yes, Cure for Pain è si la quiete dopo la tempesta, ma anche il prodromo per una ulteriore, voluta e cercata discesa verso un maelström di sensualità, ammiccante e maliziosa, arricchita dai virtuosismi di Dana Colley, che suonerà due sax contemporaneamente, ed in cui Sandman giocherà spesso tra malinconia, da una parte, e sarcasmo, dall’altra, regalando ai Morphine ulteriori ed affascinanti sfaccettature.

(Rykodisc/Warner Music, 1993)

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