(Andrea Romeo)
Per iniziare a parlare di Eleven, atteso album in cui vede finalmente la luce la collaborazione tra il chitarrista Mike Stern ed il compositore e tastierista Jeff Lorber, vale la pena di partire da due dichiarazioni, parallele, che dicono molto sul modo in cui, i due musicisti, si sono avvicinati ed hanno inteso affrontare questo lavoro:
Afferma il chitarrista di Boston… dunque solo una questione di impegni, di tempo e di ambiti “lavorativi” differenti.
Era dunque soltanto una questione di tempo, anche se, in effetti, di tempo ne è passato davvero parecchio, considerando che Stern si è distaccato dalla band di Miles Davis nel lontano 1984; trentacinque anni lungo i quali, i due musicisti, hanno condotto eccellenti carriere soliste, in una sorta di viaggio parallelo che, alla fine, si è tramutato in un “incrocio” al quale, tutto sommato, non si potevano sottrarre.
A proporsi come una sorta di “collante” per questo incontro che, probabilmente, era scritto nei loro destini, il bassista Jimmy Haslip, che li ha conosciuti ed ha collaborato con entrambi: con la Jeff Lorber Fusion, facendone parte dal 2010 ad oggi, e con Mike Stern, invitato a collaborare con gli Yellowjackets, band in cui allora Haslip militava, nella realizzazione dell’album Lifecycle, pubblicato nel 2008.
Il risultato di questo lavoro è contenuto nelle dieci tracce di Eleven, alla realizzazione del quale ha collaborato un gruppetto di musicisti davvero “di un certo rilievo”: Dave Weckl, Vinnie Colaiuta e Gary Novak, che si alternano alla batteria, Dave Mann ai fiati, Leni Stern allo ngoni, di fatto l’antenato del banjo, Bob Franceschini al sax e Chelsea Maull alle voci.
Un’ora di musica suonata con la massima libertà, lasciando si spazio ai propri trascorsi, ai propri stili, ma mescolandoli, e cercando di “buttare lì” qualche suggestione nuova su cui lavorare: c’è di tutto, in questo album, dal jazz alla fusion, dall’ r’n’b e dal soul, sino a più di qualche suggestione pop, ed è proprio per questo motivo che, i brani, volano molto leggeri, non si vanno mai ad infilare in esecuzioni contorte o troppo “avvitate” su sé stesse.
A partire da Righteous, l’approccio dei due musicisti risulta sempre molto arioso, e non si sente affatto la necessità che, chitarra e tastiere, debbano, in un certo qual modo, bilanciare in maniera esatta i loro interventi: ogni brano fa storia a sé, per cui in alcuni la chitarra, in altri le tastiere, si occupano del “cantato”, ma con una sequenza del tutto casuale e, soprattutto, senza essere mai né invadenti né sovrabbondanti nell’esecuzione.
A questo approccio si adeguano, ed in maniera del tutto incondizionata, tutti i musicisti coinvolti, anch’essi dei virtuosi, se presi singolarmente, per capacità e per caratteristiche tecniche ma che, in questo contesto, risultano essere estremamente misurati proprio per scelta.
Jazz, e jazz-fusion, da una parte, rock, r&b, funk e ritmi africani dall’altra, che i due riescono a miscelare dando luogo ad esecuzioni che, pur richiamando molte delle suddette influenze, di fatto non si intestardiscono su nessuna di esse: Lorber stesso ha affermato che, il fatto di lavorare con Stern a questo progetto, li ha allontanati parecchio da quello smooth jazz che li aveva accomunati negli anni ’80:
Non certamente un’abiura, ma chiaramente, come hanno affermato, una sfida, un momento ed un’occasione per capire se, come, e di quanto ci si potesse allontanare da percorsi più conosciuti e battuti, per andare a capire fin dove si fosse in grado di spingersi: un approccio meno aggressivo, meno elaborato, a vantaggio di melodie lineari, semplici nel loro sviluppo ma ricche di creatività.
Le parole di Jimmy Haslip, che si è anche occupato, insieme a Lorber, della produzione dell’album sono, in proposito, assolutamente rivelatrici:
Per parte loro, tutti i musicisti “si sono dati una smossa”; ora è necessario che gli ascoltatori si sentano disposti ad uscire, dalla propria “comfort zone”, per seguirli fuori dalle solite tracce.
(Concord Jazz, 2019)