Mick Softley – “Songs for Swingin’ Survivors”

La sua ultima vita comincia cadendo con la bicicletta a seguito di un ictus, per terra con la barba lunga e i capelli sporchi. Da lì in avanti ospedali e case di riposo pagate dagli amici o dai fan, da tutti quelli che lo hanno amato per una vita. Prima di questo Mick Softley era stato ogni cosa, ogni cosa bella e libera; vestito di niente anche in inverno, suonando la chitarra in modo potente ed emotivo, come dovesse morire dopo aver lottato a viso aperto con un’ombra.
Persino Donovan impara da lui un sacco di dettagli a meta degli anni sessanta (la bellissima “Goldwatch Blues” uscita sull’album “What’s Bin Din And What’s Bin Hid” è di Softley), mentre altri gli rubano le canzoni come fanno i banditi, alle spalle, già scritte con la fermezza della penna di un poeta, a meno di un passo dall’essere dei successi.
Per se stesso Mick Softley tiene quasi niente, giusto il bagaglio leggero di dodici brani che finiranno su “Songs for Swingin’ Survivors” (1965), chitarra e voce e la capacità di comprendere tutto e prendere quello che serve dal blues, dal folk, dal jazz.
Amando le band fatte con un solo uomo, Softley ripercorre in quel disco le sue primavere trascorse ad ascoltare i 78 giri di Big Bill Broonzy, Jesse Fuller, Jack Elliott; quando monello suonava il trombone nella locale foresta di Epping nell’ Essex, l’arditezza di pericolose opinioni contro il sistema, la passione per il viaggio che diventa avventura, fuga.
Perché il suo cross – over bohémien di protesta, si è creato con le maniche rimboccate, avvolto in un alone di mistero in giro per l’Europa, con i soldi ottenuti dopo aver venduto una collezione di francobolli, persino uno rarissimo di un lontano imperatore d’Etiopia.
In moto tra la Spagna e la Francia, Softley conosce William S. Burroghs e Gregory Corso, mille suonatori di strada che hanno abbandonato la vita reale, anche Bert Jansch Wizz Jones e Clive Palmer che mettono nelle sue dita le accordatura incrociate giuste, quelle naif, freak.
“Songs for Swingin’ Survivors” (ironica rilettura di un’opera di Frank Sinatra ) è un capitale rinnegato chiuso nel soffio di una voce stridente e dolcissima, una faccenda pronta a far parlare chiunque, ad evolvere continuamente tra ribellione e silenzio, amore.
Un raro punto davvero alto che può permettersi di rileggere “Strange Fruit” di Billie Holiday, di far vedere allo stesso modo il colore della pelle, che qualcuno può essere ucciso da un momento all’altro, linciato per il capriccio e il gusto di poterlo fare senza battere ciglio.
La chitarra fa uscire il sudore e il sangue alternando stile percussivo e intricato finger -picking, parla insieme alla voce di cocaina (“Jeannie”), Vietnam (“The War Drags On”), si lamenta pure nel sonno come quelle di Pete Seeger e Woody Guthrie (qui con le loro “The Bells Of Rhymney” e “Plains Of The Buffalo”).
Anche negli originali non c’è mai un paradiso, solo la privazione di ogni quiete che prova un uomo di ventiquattro anni sofferente per la presenza dell’autorità (in modo particolare della polizia), che ha due figli a casa e combatte il destino suonando musica che finirà presto nei locali in fondo alla città, viva per coraggio e ostinazione, preparata a resistere da sempre.

Trascurato in lungo e in largo, Softley non incide più nulla per cinque anni, vive facendo il commerciante e fallisce quasi sempre nelle sue attività; con il capo abbassato finisce ai margini di qualsiasi cosa, come se fosse appestato.
Donovan interviene in suo aiuto e lo riabilita per lo spazio di qualche nuovo disco (gemme di libertà una più bella dell’altra); cose troppo pure e ben presto adagiate tra le cianfrusaglie inutili da un pubblico disattento.
Finito a fare il giardiniere, pubblica tre volumi di poesia (Pietra Etrusca – Valori Fonetici – Nudo in Antartide) suonando solo per pagare le riparazioni del suo furgone e vendendo i suoi dischi in una bancarella.

L’ultima sua testimonianza registrata è una cassetta corredata di note biografiche, con mille errori ortografici per depistare allo stesso modo di un anarchico consumato ma non vinto.

“Non mi interessava di giocare per soldi; volevo solo suonare di nuovo e far si che la gente mi ascoltasse.”

Dato più volte per morto, passa definitivamente a vita migliore il 1 settembre 2017, all’età di 77 anni.

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