McStine & Minnemann – McStine & Minnemann

(Andrea Romeo)

Si potrebbero definire per svariati motivi una sorta di “dinamico duo”, certamente per l’approccio energico ai propri strumenti ma, soprattutto, per il fatto di non riuscire mai, letteralmente, a stare fermi: Randy McStine, chitarrista, cantante, autore e produttore newyorkese, oltre ad aver creato il progetto Lo-Fi Resistance, ha collaborato con membri di King Crimson, Porcupine Tree, Panic! At The Disco, Tears For Fears, Spock’s Beard, con Joe Satriani, Miles Davis, King’s X, cui va aggiunta una infinita serie di altri artisti: Vinnie Moore, Stuart Hamm, Tom Brislin, Adam Holzman, In Continuum, Dave Kerzner Band, Jane Getter Premonition, Sound Of Contact

Ha inoltre formato il trio The Fringe insieme al batterista Nick D’Virgilio ed al bassista Jonas Reingold: niente male per un trentaduenne!!!

Marco Minnemann, batterista, polistrumentista, compositore di Hannover trasferitosi da tempo a San Diego, non è certo stato con le mani in mano: una ventina di album come solista (a partire dal 1998, praticamente una cadenza annuale…), una lunga militanza con il funambolico trio The Aristocrats, insieme al chitarrista Guthrie Govan ed al bassista Bryan Beller e poi tante collaborazioni eccellenti, in studio ed in tour: Steven Wilson, Paul Gilbert, Tony MacAlpine, U.K., Joe Satriani, Mike Keneally, The Mute Gods, Trey Gunn, Tony Levin e Jordan Rudess, The Sea Within, The Buddy Rich Big Band, and more…

Insomma due veri e propri globetrotter delle sette note che, percorrendo spesso orbite limitrofe, dovevano inevitabilmente incontrarsi ed ovviamente fare qualcosa insieme; se aggiungiamo il fatto di avere gusti musicali simili e di saper suonare parecchi strumenti, non è un caso che abbiano deciso di fare da soli.

L’energia sprigionata nelle dieci tracce è impressionante ed i due, del tutto consapevoli di ciò, non ne fanno affatto mistero: “Non abbiamo fatto un album di “punk rock”, afferma il chitarrista, ma credo che il nucleo del disco sia proprio in questo spirito” ed il collega non si tira certo indietro quando sottolinea: “Mi piace molto questo mix, l’energia, le parti sofisticate, i pezzi sperimentali, e non mi fa paura.

Dieci tracce compongono il loro debut album e sin dal primo brano, Program, saltano all’orecchio diversi dettagli molto interessanti: i suoni sono asciutti, gli arrangiamenti scarni, le esecuzioni decisamente “on your face”, dirette, per un brano che potrebbe anche essere definito pop, se non fosse per l’impatto sonoro complessivo che, il tranquillo bridge centrale, non riduce affatto.

Questo approccio impetuoso appare la caratteristica principale di questo album: muta invece, brano dopo brano, la complessità delle composizioni e questo perché i due, strada facendo, ci prendono davvero gusto: Falling from Grace, la seconda traccia, si sviluppa in maniera decisamente più articolata, con variazioni di tempo improvvise, continue e molto elaborate, ed il tutto in meno di quattro minuti.

Altro particolare interessante è proprio il fatto che i due riescano a condensare, all’interno di minutaggi relativamente brevi (solamente l’ultimo brano, Voyager, supera i quattro minuti…), una quantità di proposte musicali davvero ricca.

Le chitarre sono sapientemente dosate ed in Your Offenses, ad esempio, pur esordendo con energia, si placano subito creando ampi spazi per le dodici corde che regalano al pezzo dinamica e varietà di intenzioni; del resto, il lavoro di Minnemann alla batteria crea una base ritmica non soltanto solida, ma estremamente dinamica, per cui basso e tastiere possono permettersi un approccio decisamente minimale.

Approccio “punk”, come detto, ma anche soluzioni “pop”, e non solo: Catrina potrebbe tranquillamente essere una ballad, estremamente semplice, ma i due la interpretano inserendo continue variazioni, arricchendola con un lavoro che, a tratti, risulta di estrema complessità; ciò mantiene costantemente viva l’attenzione dell’ascoltatore che non può permettersi di perdere il filo del discorso.

Coniugare espressività e doti esecutive sembra semplice, ma non lo è affatto, perché spesso per ottenere la prima, si tende a semplificare, a non prendersi rischi: McStine e Minnemann vanno esattamente in direzione opposta per cui, quando possono anche solo azzardare (più o meno sempre…), lo fanno senza la minima remora.

Provare per credere: Top of the Bucket, in teoria, sarebbe un quattro quarti senza se e senza ma eppure, grazie alla “cura” al quale viene sottoposto dalle sapienti bacchette del batterista, diventa un condensato poliritmico di tre minuti e mezzo che sprizza energia e non concede pause, esattamente come il brano successivo, Tear the Walls Down (No Memories), per certi versi ancora più diretto, quasi metal, che lascia un attimo di respiro solo verso la fine mentre Fly, con il suo cantato sofferto, il suo ritmo altalenante e le timbriche “chiuse”, privilegia un’atmosfera decisamente più oscura.

Già, perché le variazioni di cui si è detto, riguardano anche la personalità dei brani, spesso difficilmente inquadrabili in un genere preciso: Activate è, nelle intenzioni, un brano decisamente pop, ma è suonato davvero ad un altro livello rispetto al pop mainstream, mentre The Closer è forse l’unico pezzo che non spiazza all’ascolto: è una ballad, melodica, e lo è sino in fondo…

Si chiude con la già citata Voyager, l’unica a proporre una percepibile influenza prog grazie anche ad alcuni passaggi quasi “crimsoniani” e ad una dinamica che, sfruttando il maggior tempo a disposizione, propone atmosfere differenti e più complesse.

Insomma, due ragazzacci dal cuore punk, con il vizio della melodia, ma soprattutto con la capacità di inventare di continuo modalità espressive fuori dal normale, così da rendere una canzone “semplice” un vero e proprio percorso acrobatico, che ne moltiplica considerevolmente l’appeal…

(McStine & Minnemann, 2020)

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