Linda Hoyle – Pieces of Me/The Fetch

(Andrea Romeo)

Due album, ben quarantaquattro anni tra il primo ed il secondo… di fatto una vita, e non solo in senso figurato: Pieces of Me usciva nel 1971, in corrispondenza con la fine della band che l’aveva vista protagonista, gli Affinity, mentre The Fetch viene realizzato nel 2015, grazie alla ritrovata partnership con il vecchio compagno Mo Foster, bassista e produttore, con il quale aveva esordito nel lontanissimo1968.

La vicenda artistica di Linda Hoyle si snoda curiosamente proprio intorno a queste due date, e non può che essere definita breve perché, nel lungo intervallo che le separa, la sua attività di art-therapist l’ha completamente coinvolta, portandola lontano dall’Inghilterra, in Canada, dove si è laureata e specializzata presso la University of Western Ontario, dove ha fondato con altri colleghi la Ontario Art Therapy Association e dove ha svolto a lungo la sua professione… la musica, che era stata l’attività centrale dal 1968 al 1971, è stata relegata in un cassetto, se si escludono occasionali esibizioni in ambito jazz ed una estemporanea esibizione nel 1980, durante un anno sabbatico in Inghilterra, con la compagnia di teatro sperimentale londinese People Show.

Occorre tornare a quando, insieme alla sua band di allora, gli Affinity, dopo una gavetta di alcuni anni nei locali di Londra, in giro per l’Europa e con puntate in Scandinavia, fu sul punto di fare il grande salto, con la pubblicazione del primo album, che ebbe buoni riscontri nell’underground londinese; la giovane studentessa di Hammersmith non solo aveva stregato i suoi compagni ma, con una voce acrobatica ed espressiva, era entrata nel gotha delle vocalist britanniche catturando l’attenzione del pubblico.

Nel medesimo periodo Anne Nightingale, prima donna presentatrice della BBC, intraprese un viaggio con la band, filmandola per realizzare un documentario sulla loro vita “on the road” e ciò accadde proprio nel momento in cui, terminata la sua relazione con il tastierista Lynton Naiff, la Hoyle decise di abbandonare il gruppo: come una sorta di mentore, Ronnie Scott le affiancò il polistrumentista e compositore Karl Jenkins, piano, oboe, oltre a Chris Spedding, guitars, John Marshall, drums, percussion e Jeff Clyne, bass, provenienti dai Nucleus, che lavorarono con lei alla realizzazione del suo primo album solista, Pieces of Me, uscito nel 1971.

Una carriera in ascesa, dunque, pronta a spiccare il volo, ed invece ecco il repentino ritiro dalle scene, il trasferimento in Canada e l’inizio, non solo di un’altra carriera, ma proprio di un’altra vita in cui quello di musicista, per decenni, ha rappresentato un occasionale divertissement, ma non più un’attività a tempo pieno.

L’album si apre con una ruvida e suadente Backlash Blues, di Nina Simone, prima delle tre cover presenti nella track list: le altre sono Lonely Woman, di Laura Nyro, e Barrel House Music, firmata Mildred Bailey ma la gran parte dell’album e costituita dagli otto brani firmati dalla coppia Hoyle/Jenkins e questo rappresenta un deciso passo in avanti rispetto all’album degli Affinity, in cui le cover erano preponderanti.

Si parte dunque con piglio drammatico, una voce ruvida, sofferta, accompagnata da una chitarra slide disperata e sofferente… poi il blues, inteso soprattutto come sentimento, si libera, grazie anche all’intensa chitarra di Spedding.

Da qui in poi la voce della Hoyle si libra altissima, come aveva già lasciato capire nel lavoro con la band: Paper Tulips e For My Darling, nella scia delle grandi voci soul, Black Crow, con il suo andamento vagamente southern guidato dal travolgente piano di Jenkins, la title track, che torna sulle tracce del passato grazie ad un rock grintoso, frammentato, venato di psichedelia, in cui la Hoyle e Spedding si dividono la leadership; la cover della Nyro (autrice già presente nelle outtakes di Affinity) voce e piano, accarezza grazie ad una delicatezza tormentata, Hymn to Valerie Solanas è, a suo modo, una canzone politica, tra psichedelia e riverberi di Summer of Love.

Si prosegue con una love song, The Ballad of Morty Mole, di fatto dedicata al marito, quel Nick Nicholas che fu il primo contrabbassista/bassista dei Baskervilles, in cui la voce della Hoyle ha modo ancora una volta di mostrare le proprie doti di duttilità e di spazialità, mentre Journey’s End, grazie alle tonalità minori che rieccheggiano i Procol Harum, esprime insieme nostalgia per la strada già percorsa ma anche, forse, attesa per ciò che si profila all’orizzonte, seguita da Morning for One, malinconica riflessione sulla vita solitaria.

L’album si chiude con la cover di Mildred Bailey, impreziosita dal pianoforte di Colin Purbrook, ed i suoi sentori da jazz club anni ’20.

Una voce blues/soul dall’estensione incredibile dunque… poi passano ben quarantaquattro anni: l’incontro con Mo Foster, un comeback inatteso in cui quel lasso di tempo si dissolve sin dalle prime note di The Fetch, che apre l’album omonimo. Cambiano, come è ovvio, i suoni e gli arrangiamenti ma la voce, quella voce, appare intatta, integra: le frequenze basse sono più piene, quelle medie si sono arrotondate ed ammorbidite ma, quando Linda Hoyle decide di salire, torna ad essere la studentessa di Hammersmith con i suoi toni acuti da ventenne.

Tredici le tracce di The Fetch, a cavallo tra jazz, soul e musica etnica, ed a cui Roger Dean, vecchio amico di Ronnie Scott, regala una delle “sue” copertine; l’input nasce quattro anni prima grazie alla reunion con i vecchi compagni fissata su The Baskervilles Reunion 2011: da lì in poi tutto è scivolato via con naturalezza, ed un nutrito gruppo di musicisti ad accompagnare la Hoyle nel nuovo millennio: Foster, come detto, a fare da band leader, poi Oliver Whitehead, guitars, keyboards, Corrina Silvester, percussions, Ray Russell, guitars, un grande Gary Husband, drums, electric piano, il marito Nick Nicholas, double bass, Dougie Boyle, guitars, electric sitar, BJ Cole, pedal steel guitar, l’inossidabile Peter Van Hooke, drums, Chris Haigh, fiddle ed ancora Jim Watson, electric piano, Hammond, George Shilling, cello, Chris Biscoe, soprano sax, Bill Worrall, piano, Julian Littman, mandolin, accordion, Rupert Cobb, trumpet e Wendy Hoyle, vocals.

Lo stile non si discosta da quello degli inizi della carriera anche se il passare del tempo ha smussato gli spigoli, per cui i ritmi lenti ed i toni pacati sono decisamente prevalenti ed alcuni brani, Brighton Pier e Maida Vale, rimandano ai luoghi che, all’epoca, avevano vissuto un fermento artistico forse unico; mancano, ad essere pignoli, quei due, tre brani aggressivi che non avrebbero stonato nel contesto, ma si tratta di scelte.

Qualche accennata acrobazia vocale la si trova in Fortuna, nonostante il piglio slow, accompagnata da un Hammond killer nella seconda parte, mentre in Snowy Night il basso fretless di Foster e la steel guitar di Cole regalano brividi, ma il tutto avviene in un contesto molto soft, rilassato, privo di qualsiasi furore giovanile; l’album si chiude con una bonus track, Who’s There che, idealmente, ne fa una sintesi.

Una uscita decisamente intrigante, dunque, che ripropone un’artista tanto interessante quanto underrated, e lo fa riunendo il suo passato ed il suo presente, temporalmente distanti, ma neppure così tanto lontani.

(Cherry Red Records/Esoteric Recordings, 2020)

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