Lee Ritenour – Dreamcatcher

(Andrea Romeo)

No drums, no bass guitar, no keyboards, no horns, no strings, nothing… only and only guitars… ecco, questo è ciò che si può ascoltare all’interno di Dreamcatcher, l’album che ha tenuto occupato per tutto questo strano, inconsueto, drammatico 2020, il chitarrista losangelino che, dopo oltre quarantacinque anni di carriera, di collaborazioni più che eccellenti, di album che hanno svariato dal jazz, allo smooth jazz, fino alla fusion, ed al funk, ha deciso che un periodo così inusuale andasse messo su pentagramma e dovesse diventare un album.

Quanto al titolo, beh… in un’epoca di continui “lockdown”, definirsi un “cacciatore di sogni” significhi intanto non voler perdere affatto il contatto con la realtà, ma anche e soprattutto non rinunciare al desiderio di superare questa fase, di volare, per lo meno e per ora con la fantasia, in attesa però di poter andare, in tutto e per tutto, oltre tutto ciò.

Lee Ritenour ha messo in musica i suoi pensieri, le sue riflessioni, ed ha deciso di comunicarli attraverso le sei corde che, negli anni, lo hanno accompagnato, a partire dalle fedeli Gibson Les Paul e Gibson L5 ’49, per arrivare alle più recenti Sadowsky SS-15 e Xotic XSC3 Custom, alle quali ha affiancato tre eccellenti acustiche, una Yamaha NCX 5, una Taylor Baritone ed una Taylor High-Strung. Le sue parole, riguardo a questo lavoro, suonano chiarissime: “A “solo guitar” album is one I have never done… ever. And after working on so many album projects, Dreamcatcher was unique, challenging, and very inspiring, especially this year.

Un album, il suo, in cui il chitarrista non si è posto alcun limite, per cui si va dalla semplicità di una singola chitarra, come ad esempio nella titletrack, tutta in acustico, o nella successiva Charleston, brano “southern” tutto in elettrico, sino alle venti tracce sovraincise, vero e proprio trionfo dell’overdub, di Couldn’t Help Myself. A seguire, una serie di brani in cui il musicista si “moltiplica” sovraincidendo parti soliste all’interno di sezioni ritmiche, ed in ognuno dei quali prova a ricordare, raccontare ed anche riflettere su fatti, situazioni, luoghi.

A partire da Lighthouse, dedicato ad un noto jazz club di Hermosa Beach, nella natia California, in cui ebbe modo di vedere ed ascoltare alcuni tra i suoi principali riferimenti artistici quali Wes Montgomery, Kenny Burrel, Joe Pass, il leggendario Julian Edwin “Cannonball” Adderley, ed ancora il trombettista Freddie Hubbard; un pizzico di malinconia dunque, che fa parte del ricordo, ma probabilmente il brano che rappresenta meglio lo stile di Ritenour, cui fa seguito Morning Glory Jam, pezzo che risale addirittura al lontano 1977, qui ribattezzato “jam” perché, adesso, le chitarre sovraincise sono diventate quattro.

La successiva Starlight è un delicato acquarello acustico, un brano, per così dire, “da meditazione”, in cui una chitarra acustica solitaria, sotto le abili dita del musicista americano, racconta una storia, che è poi quella dello Starlight Recording Studio, il primo studio di registrazione personale realizzato da Ritenour nel 1984 e spazzato via dal Southern California Woolsey Fire nel 2018, proprio quando aveva appena terminato la composizione di questo pezzo.

Cambia tutto, invece, con Abbot Kinney, in cui una Les Paul nervosa e ruvida, che viaggia a pieno regime, racconta di una strada di Venice Beach, South California, piena di gente, negozi, locali, musica, un’arteria che pulsava letteralmente di vita e di jam sessions, e che Ritenour ha percorso nel 2020 attraversandola, ma trovandola deserta e divenuta di fatto priva di vita, una visione che lo ha indotto a riflettere, in solitudine, sui tempi odierni.

Couldn’t Help Myself, il brano più strutturato di tutto l’album è, a discapito del titolo, un pezzo solare, arioso, molto californiano, in cui l’aiuto viene proprio dalla tecnologia che, come detto, permette al chitarrista di far dialogare le sue chitarre e prepara la strada al pezzo probabilmente più personale di tutto il lavoro, quella For DG che è un omaggio davvero intimo al mentore, amico e collaboratore Dave Grusin, conosciuto quando Ritenour aveva diciannove anni, e con il quale ha condiviso buona parte dei passaggi fondamentali della propria carriera.

Qualche lontana eco sudamericana si percepisce invece in Via Verde, brano acustico che riporta ad alcuni suoi lavori della metà degli anni ’80 come Harlequin, una delle tante collaborazioni con Grusin, seguita da una romanticissima Low & Slow, brano decisamente “d’atmosfera” nello sviluppo, e nel quale il tocco e la delicatezza dell’interpretazione fanno decisamente la differenza.

Storyteller è esattamente ciò che dice il suo titolo, ovvero una breve ed intensa narrazione, fatta letteralmente in punta di dita, una narrazione fluida, quasi “liquida” per una chitarra acustica con solamente un minimo accenno di riverbero, roba minima verrebbe da dire, parafrasando Jannacci, ma che le regala quella profondità di suono che cambia davvero tutto.

Il brano che chiude l’album è una piccola suite in tre movimenti, dal titolo quanto mai indicativo, ovvero 2020 Pt. 1, 2 e 3, in pratica una sorta di compendio finale in cui il chitarrista californiano racchiude le proprie impressioni riguardo a questo anno così complesso, difficile e duro; una lunga svisata dagli accenti jazz, che si interrompe in un paio di occasioni per poi riprendere, con un timbro ed una elaborazione armonica leggermente differente, entrambe le volte.

Un Ritenour molto intimo, dunque, alla scoperta di un lato di sé stesso che molto spesso è stato sul punto di esprimersi pienamente e che, probabilmente, non è mai riuscito a farlo in maniera compiuta, limitandosi a disseminare soltanto piccole tracce di sé all’interno dei tanti album che lo hanno visto e lo vedono, da anni, protagonista.
Un lavoro, Dreamcatcher, in cui la chitarra parla, e lo fa attraverso molti e differenti linguaggi, ma non rivolgendosi soltanto ai chitarristi.

(Mascot Music Productions, 2020)

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