La vita turbolenta dei Beasts of Bourbon – Rock dall’ Australia

(Andrea Lenti – 18 marzo 2020)

C’è stato un periodo in cui quasi tutti i ragazzi avrebbero voluto suonare in una band e diventare della rockstar.

Il successo, le ragazzine, la bella vita, gli eccessi; diffidare da chi dice che ha sempre suonato solo per il gusto di farlo. Ognuno vorrebbe un bel palazzetto pieno e migliaia di ragazzi che cantano le sue canzoni.    Ogni musicista vorrebbe essere ricordato in eterno e vedere la propria faccia sulle magliette.   Se la cosa non succede non è detto che sia un dramma, anzi. Ci sono centinaia di band e artisti che suonano con orgoglio davanti ad audience ridotte portando avanti con passione e fierezza il loro lavoro.   E poi ci sono delle band che non sono diventate famose ma che vengono considerate ispiratrici e comunque punti di riferimento per altri artisti.

È un pò la storia degli australiani Beasts of Bourbon, interessantissima band che per la loro musica, il modo in cui la suonano ed il loro atteggiamento da outsider richiamano quell’estetica da rockstar romantica e decadente pur trovandosi ad anni luce dall’essere rockstar “vere”.
Ascoltando ancora oggi i loro dischi sfugge il motivo per cui non abbiano avuto maggiore successo, ma a volte la spiegazione sta in dettagli difficilmente comprensibili. 

Ma cominciamo dalla fine: nell’aprile del 2018 la band, già più volte sciolta e riformata, si ritrova per una manciata di date d’addio al pubblico australiano, sapendo che questo sarà davvero il loro ultimo saluto, 11 anni dopo l’uscita di Little Animals, il loro ultimo album. 

Il bassista Berry Hooper sale sul palco sulla sedia a rotelle indossando una maschera per l’ossigeno guardato a vista da una mezza dozzina di infermieri, mentre il bassista dei primi anni, Boris Sudjovic, siede nel backstage in attesa di sostituire Hooper nel caso non ce la facesse. Anche il chitarrista Spencer P. sale sul palco per una delle sue ultime performance. Hooper morirà giorni dopo questo ultimo concerto di Melbourne, mentre Spencer P. morirà ad agosto. Tutto molto maledettamente rock and roll… James Baker alla batteria, Kim Salmon alla chitarra e Tex Perkins alla voce completano il gruppo. Finisce così la turbolenta storia dei Beast of Bourbon, the self styled, most bad-ass rock and roll band on the planet, la band che malgrado tutto, ostinatamente per anni si è rifiutata di morire.
Tex Perkins è una piccola-grande rock star locale, con una brillante carriera solista impreziosita da militanze in varie band australiane nel corso di quasi 40 anni di musica. La sua fisicità impersonifica la mascolinità un pò stereotipata australiana, una voce dai toni bassi e una reputazione di osso duro da gestire e scavezzacollo.

La band si forma a Sydney nel 1983, negli stessi anni in cui in America nascono band fondamentali come i Green on Red, Dream Syndicate, Violent Femmes, Long Ryders e molte altre. Ma i Beasts of Bourbon hanno un suono più sporco, più bluesato, più disperato più nichilista e decadente. Il loro primo album The Axeman’s Jazz è del 1984 ed è decisamente il più bello. In quell’anno è il disco più venduto in Australia nella categoria “alternative rock”. È forse il più scarno ed essenziale, teso e nervoso, con qualche accenno persino a Tom Waits. Il singolo che traina il disco è Psycho, con richiami ad atmosfere fine anni ’50, intrigante e che ti resta subito in mente.

Malgrado il successo la band si scioglie e si riforma nel 1987 quando esce Sour Mash, seguito da un tour che li porterà anche negli USA. È sempre un disco di buon livello, influenzato dai Cramps, con sottofondo di blues e la voce di Perkins che diventa sempre più profonda ed interpretativa. Nel ’90 esce Black Milk, più deludente e stanco, e nel ’91 Low Road.
Negli anni seguenti i Beasts of Bourbon girano il mondo suonando anche in Europa, pubblicano un album Live tratto da questi tour (The Belly Of The Beasts) ma nel ’94 si risciolgono. 

Tornano nel ’96 con Gone ma nel ’97 si separano di nuovo, a causa di frizioni interne ed un pò delusi del declinante successo commerciale. Si riformano nel 2003 e pubblicano Low Life nel 2005, mentre nel 2007 è il momento dell ‘ultimo album della loro storia, il già citato Little Animals, un album molto bello, seguito da un tour europeo che ha i presupposti per rilanciare la  loro carriera. Ma nel 2008 dopo un concerto a Berlino, la band interrompe improvvisamente il Tour cancellando le rimanenti date.  I ragazzi non si smentiscono, distrutti dalle liti e dagli eccessi. Seguiranno solo alcune apparizioni in qualche festival fino all’ultimo concerto di 2 anni fa, annunciatore della fine, quella vera.

Cosa resta dei Beasts of Bourbon? Sicuramente un paio di grandi dischi, decine di concerti tirati che rinverdiscono il mito della tipica rock and roll band sregolata, talentuosa e distruttiva, ed un ultimo acuto nel loro ultimo album (Little Animals), quella I don’t Care About Nothing Anymore che se fosse stata cantata da Iggy Pop sarebbe diventata una hit mondiale, un pezzo con un tiro pazzesco, decadente, una canzone rabbiosa e romantica allo stesso tempo , tutti  ingredienti giusti che normalmente servono per gettare le basi per la costruzione di quella cosa fantastica, inspiegabile e misteriosa che sono le rock and roll band. Sia quando hanno successo e soprattutto quando ne hanno meno.

Una band da riscoprire, un diamante grezzo, una testimonianza di quando il rock and roll era ancora fatto per anime randagie e cuori sanguinanti.     

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