Khan – Space Shanty

(Andrea Romeo)

All’interno di una galassia ci sono pianeti, ammassi stellari e stelle singole di varie dimensioni, ma anche di differente lucentezza: se si volesse utilizzare questo paragone, diciamo così, astronomico, la Scena di Canterbury può davvero essere equiparata ad una galassia, questa volta musicale, e ciò perché al suo interno, ed intorno ad essa, hanno ruotato decine di band e di musicisti che hanno spaziato fra i più svariati generi, creando realmente un piccolo universo dalla molte sfaccettature.

In questo contesto spazio-musicale, va notata anche la presenza delle comete, stelle che lo attraversano per un breve istante, emettendo una luce fortissima, a volte abbagliante, per poi spegnersi, e scomparire di lì a poco lasciando però una traccia indelebile nella memoria.

I Khan possono, a buon diritto, essere paragonati ad una cometa del Canterbury Sound: nascono nel 1971 quando, intorno alla figura del chitarrista e cantante londinese Steve Hillage, in uscita dagli Uriel, si raccolsero Nick Greenwood (bass guitar, da The Crazy World of Arthur Brown), Dick Heninghem (organ) e Pip Pyle (percussions).

Neppure il tempo di iniziare a ragionare sul futuro, e subito due defezioni, peraltro immediatamente ed adeguatamente rimpiazzate: Pyle si sfila, in direzione Gong, sostituito da Eric Peachey in arrivo dalla Dr. K’s Blues Band, mentre al posto di Heninghem viene chiamato Dave Stewart, già con Uriel ed Egg.

Siamo verso la fine del 1971 quando, finalmente, la line-up così composta entra in studio con il produttore Neil Slaven per realizzare quello che sarà il primo, e l’unico, album della formazione, Space Shanty, che diverrà negli anni un lavoro di culto, una sorta di piccolo graal del suono canterburiano.

Già, perché le sei tracce contenute nell’album, musicalmente e concettualmente, esprimono nel contempo slanci progressive, psichedelia e rock canterburiano, nella loro manifestazione più autentica; resta ancora un vero mistero il fatto che, per molti anni, questo lavoro si stato ampiamente sottostimato dal pubblico, quanto invece considerato basilare, quasi seminale, dai critici, ma soprattutto dagli addetti ai lavori.

Hillage e Greenwood si dividono le armonie vocali, lo stesso Hillage e Stewart la fanno, per così dire, da padroni dal punto di vista musicale: Space Shanty è, in tutto e per tutto, un album di chitarre e tastiere, ricco, elegante, accattivante nelle scelte stilistiche e davvero superbo per quanto riguarda la tecnica esecutiva, che rivela all’ascoltatore quattro strumentisti di livello assoluto.

Non stupisce affatto l’intro del primo brano, Space Shanty (Inc. The Cobalt Sequence e Murch of the Sine Squadrone), dal vago sapore Purple/Sabbathiano perché, quasi immediatamente, il gruppo parte per una lunga cavalcata sonora in cui prog ed improvvisazione, apparentemente antitetici, coesistono ed anzi, si integrano con passaggi folk ed hard.

Come detto all’inizio, all’interno di una galassia risulta quasi inevitabile che, stelle e pianeti, si illuminino a vicenda, per cui non è affatto un caso che, in alcuni passaggi di Mixed Up Man of the Mountains, si intravedano palesi bagliori di space-rock.

Canterbury c’è, eccome, nella struggente Stranded, con le sue scale discendenti di pianoforte, ed in Driving to Amsterdam, brani che rimandano a certe ballad degli Uriah Heep, così come il prog, più propriamente definito, che fa capolino in Stargazers.

L’aver riscoperto, e ristampato, questo lavoro, ha il merito di aver restituito al complesso puzzle di quel decennio, così ricco di inventiva, immaginazione e creatività, una tessera fondamentale che pareva sepolta sotto una coltre di polvere; il tempo, dicono sia galantuomo e, almeno questa volta, la frase ha davvero un significato ed un senso: Space Shanty è un album che definire fondamentale non suona affatto eccessivo, e questo perché riassume in sé il senso del quinquennio precedente ma soprattutto proietta in avanti idee che, negli anni a seguire, renderanno fertile un terreno da cui sorgerà una fioritura musicale di grande ricchezza.

Underrated, indeed, but essential, of course…

(Decca/Esoteric Records/Cherry Red Records, 1972)

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