Kevin Coyne – “Case History”

(Massimo Tinti)

Ha meno di quattro ore Kevin Coyne, quattro ore per registrare “Case History“, il suo primo disco da solista. Quasi da solo dentro uno modesto studio di registrazione a Twickenham (con lui gli amici Roy Brown al trombone, Dave Clague al basso e John Chichester alla chitarra), con John Peel che gli ha prestato qualche spicciolo per pagare la sessione. Ha ventotto anni Coyne, ma è già un uomo molto povero e per di più ubriacone; spesso, sotto il consiglio della disperazione, alza il gomito a dismisura e si mette a guardare la sua ombra che si muove sul muro, impotente, insoddisfatta. Dentro quello studio Coyne suona e beve, molesta la chitarra con l’uso costante del pollice per gli accordi, batte il piede per terra sul parquet pericolante: una semplice accordatura aperta eppure indimenticabile, urgente come una cosa che non si puo rimandare. Coyne nella vita è stato molte cose e ognuna sofferta, indurita, piena di arbitrarie limitazioni, con la sorte sotto l’azione serrata e travagliata della collera celeste. C’è un orologio nello studio e Coyne vede passare il poco tempo a disposizione, realizza che ha due figli a casa e nemmeno un soldo in tasca, che ha una sete insaziabile ma beve sempre le stesse cose sbagliate. Ma Coyne è pure un genio, di quelli forgiati nella estrema sofferenza, tra le tante botte prese a scuola dai suoi compagni per la bassa statura, nell’ handicap della sordità di sua madre che lo ha costretto da bambino a cantare più forte, ancora di più ma senza alcun risultato. E allora quella voce diventa un lamento e nessuno sa se appartiene ad un uomo bianco o nero, una donna, un bambino; se è quella di un fauno o di un Dio che è stato vinto ed è solo.
Coyne sa anche dipingere meravigliosamente, scrive per il teatro, combatte insieme a Robert Wyatt battaglie politiche già perse ma vinte, tiene sotto il letto i dischi di Elmore James, Ben E King, Captain Beefheart, Buddy Guy. Tra la poesia e la tanta rovina, Kevin Coyne è diventato pure un’assistente sociale presso il Whittingham Hospital nel Lancashire, anche da li arrivano i versi e le strofe, soprattutto da li; alla vista dei senzatetto, degli sfavoriti, dei vagabondi neri uccisi dalla polizia, tra gli emarginati del mondo, l’instabilità mentale, l’indifferenza sociale.
Il whisky scorre in quello studio e tutta la rabbia di Coyne diventa una prima canzone, poi senza voltarsi indietro tutte le altre; le nove di “Case History”. Nel mentre Coyne inciampa nei suoi limiti con la chitarra, ma nessuno gli dice nulla perché tutti commossi fino alle lacrime, penetrati da quello sguardo blues senza nemmeno un fronzolo, con tutti gli argomenti di solito evitati messi in bella mostra sotto gli occhi di tutti, fino a fare male. Nel cantare Coyne tira fuori l’anima, stringe con una pinza le parole, mastica tra i denti la tempesta e fa politica a modo suo. Con i lineamenti contratti e la follia. Col cuore gonfio e depresso. Raccontando la verità ogni volta con un timbro diverso, di un’altra persona; Van Morrison, Joe Cocker, Little Richard, Howlin Wolf.
Storie fredde e dure come un tozzo di pane; scritte camminando tra la gente derisa e ammazzata per la strada, in mezzo alla violenza sui pazienti psichiatrici, tra l’amore che si annoia e vuole andarsene via dal mondo su un cavallo bianco.
“Case History” esce a dicembre del 1972 ma non riesce a raggiungere le persone, abbandonato a se stesso dal fallimento della Dandelion Records di John Peel. L’eroica etichetta, no profit e socialista, esala il suo ultimo respiro proprio mentre tenta di promuovere “Case History”; con Peel che suona nelle case come un mercante di bibbie pur di venderne una copia, che bussa ovunque avvilito, pazzo e sul lastrico come la grande bellezza del disco.
“Case History”, anche se finito subito in un abisso senza finestre, rimane la cosa più vera e chiara che Kevin Coyne abbia mai fatto; tanto spontaneo e intimo che le note, seppure quasi tutte zoppe o sbagliate, entrano nelle viscere, parlano da sole, fanno paura.

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