Jordan Rudess – Wired for Madness

(Andrea Romeo – 18 novembre 2019)

Quando si entra a far parte di un gruppo musicale, e di un gruppo musicale famoso, avendo già alle spalle una buona carriera solista, il balzo in avanti risulta essere quasi sempre di una certa importanza; se poi si entra in una band come i Dream Theater, occupando il posto che era stato di Kevin Moore e Derek Sherinian, l’impegno è davvero di quelli rilevanti.
Jordan Rudess
, in quel momento, aveva già alle spalle una decina di album, come solista e come collaboratore di personaggi di un certo rilievo, Vinnie Moore, Annie Haslam, Rod Morgenstein, ed aveva già “assaggiato” la nuova situazione suonando con John Petrucci, Mike Portnoy e Tony Levin nel primo album dei Liquid Tension Experiment.
Durante i vent’anni di militanza all’interno della band statunitense, nata all’interno del Berklee College of Music di Boston nel 1985, Rudess non ha mai rinunciato a confrontarsi con altre realtà, ed altri musicisti per cui, la sua carriera fuori dai DT, è proseguita in maniera decisamente intensa: le collaborazioni con i Prefab Sprout, David Bowie, Neal Morse, Steven Wilson, Marco Minnemann,ma soprattutto gli album solisti, sempre in collaborazione con musicisti talentuosi e creativi.

Wired for Madness è il suo sedicesimo album come solista, e per metterlo in cantiere non si è certo risparmiato nel chiedere aiuto ad un gruppetto di musicisti “di un certo rilievo”: Rod Morgenstein, Marco Minnemann ed Elijad Wood, alla batteria, Marjana Semkina e James LaBrie alle voci, John Petrucci, Guthrie Govan, Vinnie Moore e Joe Bonamassa alle chitarre, Alex Darson e Jonas Reingold al basso.
Insieme a loro ha realizzato un album che si potrebbe definire polimorfo, con due mini-suites iniziali, Wired for Madness Part 1 e Part 2, suddivise in tre movimenti, la prima, ed in sette la seconda, e sei brani all’interno dei quali sviluppa, grosso modo, il discorso iniziato vent’anni fa con i Liquid Tension Experiment: una fusion molto dinamica, ricca di cambi di tempo, ma anche di genere, con l’inserimento, ad esempio, di passaggi jazzati, quasi vaudeville, nel brano di apertura, Bring it on, ma anche in Cosmic Chaos, terzo movimento, ed Human Kaleidoscope, sesto movimento, inseriti nella seconda suite, e con un intelligente uso, sia delle chitarre che delle voci.
Spiccano, ed in maniera singolare, anche gli stili, sensibilmente differenti, dei tre batteristi, che offrono realmente un’impronta, precisa e personale, ai brani in cui si occupano della parte ritmica.
Tastiere in grande evidenza, sicuramente, ma mai troppo invadenti e, soprattutto settate con suoni davvero molto, molto differenti, e decisamente molto più interessanti, rispetto a quelli utilizzati solitamente con i Dream Theater (e qui si potrebbe aprire un certo discorso, e magari una polemica… ma davvero non è il caso).
E’ ovvio che, avendo più spazio, sia a livello compositivo che di arrangiamento, Rudess riesca finalmente ad esprimersi non solo in modo più ampio, ma anche più creativo, mettendo insieme un album piacevole, arioso, privo di spigoli o dei passaggi troppo complessi nei quali, forse, troppo spesso, viene coinvolto in altre situazioni.

Il suo amore, più volte dichiarato, per il prog più “classico”, incluso quello italiano, traspare da molti passaggi di questo lavoro, ai quali si alternano comunque aperture più “moderne”; il risultato è un album che non si ripete, anzi, muta forma continuamente stimolando l’ascoltatore che non sa, davvero, cosa aspettarsi, brano dopo brano.

(Music Theories Recordings/Mascot Music, 2019)

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