John Fahey – “Blind Joe Death”

(Massimo Tinti)

Questo disco è stato registrato ed è uscito sul mercato per ben tre volte. La prima edizione in sole cento copie del 1959 è stata tramandata ai posteri solo oralmente, definita come una realtà bella e spartana dove si sentono pure le cose che avvengono intorno; un cane che abbaia, una porta che sbatte, due persone che parlano a voce alta. Brani leggendari e rarissimi che quasi nessuno ha mai ascoltato perché il master originale è andato perduto; sfregiato da chissà chi con un colpo di pistola. Quello sparo, ammesso ci sia stato davvero, andrebbe visto come un marchio di autenticazione addosso a quello oscuro settantotto giri, una trovata fuorilegge per farlo entrare nel dannato mondo del blues. John Fahey incide “Blind Joe Death” per assomigliare almeno un poco ai suoi eroi, per essere da qualche parte con loro nei bordelli, sulle assi di un treno merci, in un incrocio ben vestito ad aspettare il primo diavolo che passa. Per essere come Charley Patton o Skip James, Fahey entra nei panni di Blind Joe, un bluesman mai esistito che prende vita tra le sue dita, nella sua mente, in quel suo cuore giovane che sa acchiappare come nessuno il pericolo e la bellezza di quella musica (nella prima stampa la facciata A era accreditata a John Fahey e la seconda al fantomatico Blind Joe Death).
Le note di copertina vergate dallo stesso autore (in larga parte riportate nelle successive ristampe), sono altrettanto incantevoli; magicamente brave a raccontare una storia inventata, quella di Blind Joe, facendola sembrare vera, tenendola per tutto il tempo accanto alle emozioni di chi ascolta. La riscrittura definitiva dell’album, l’edizione stereo del 1967, è stata da tutti incensata quale la migliore delle tre, quella che possiede la luce più intensa, il suono e la tecnica meglio sviluppate, le linee più nette del progetto originale.
Ciò non toglie che gli occhi e le lacrime che ci sono dietro, avrebbero voluto saltare fuori e per aria ascoltando quella prima versione mono di fine anni cinquanta, quel graffito primitivo inciso con le dita autodidatte impantanate nella passione.
Quando si parla di “Blind Joe Death”, trattiamo di un disco fatto quasi di niente, soltanto un monologo con una Gibson Recording King degli anni ‘30; solchi sul vinile di un uomo che si vede ancora bambino ad ascoltare Blind Willie Johnson alla radio, che
cammina da solo per la strada, oppure inciampa nelle cose malvagie che fanno male per tutta la vita (Fahey fu più volte abusato sessualmente dal padre e crebbe con una mamma quasi assente).
Con quella sua posa inimitabile (col dito mignolo puntellato sulla cassa e il fondo della chitarra che poggia all’interno della coscia destra come fosse un banjo), Fahey si libra in talentuose riletture di vecchi standard misti a qualche originale, pezzi di bravura senza appoggiarsi quasi per niente ad un genere musicale definito, ad una cosa che si può riconoscere al volo.
Ogni suo movimento procede lentamente in avanti, parla di religione senza che nessuno sappia quale (come ricordato nella memorabile “In Christ There Is No East Or West), di mondi lontanissimi tenuti assieme con dei nodi irregolari fatti con il bluegrass, il ragtime, le avanguardie dissonanti di Bartock e Yves. Una combinazione di forze senza fronzoli inutili, con i bassi marcati per evocare la negritudine, con gli accordi che fanno una giravolta per portare le melodie sepolte della tradizione verso qualcosa di nuovo, di parallelo.
Ascoltando “St. Louis Blues”, “Uncloudy Day”, “John Henry”, “Desperate Man Blues”, “I’m Poor Boy A Long Ways From Home”,
e tutte le altre, sembra di stare nella testa di una creatura che accarezza gli alberi, le tartarughe, che gioca incantato in mezza all’acqua, mentre lontano si vedono le montagne e qualche nuvola solitaria.
Col tempo arriveranno i grandi capolavori di Fahey e il suo linguaggio trascendente alla chitarra verrà incensato in ogni luogo persino da Pete Townshend, Thurston Moore e Jim O’ Rourke.
Saranno comunque anni difficilissimi contrassegnati da pasticci colossali di alcool e sonniferi, da una vita randagia e autodistruttiva dentro e fuori le pareti anguste di mille motel scalcinati.
Anni in cui per continuare a vivere John Fahey venderà tutti i suoi 78 giri e le acquisizioni della sua Takoma Record, anche l’inseparabile giacca di velluto nocciola e i mille amuleti acquistati durante un remoto tour in Tasmania.
Persino le ultime due copie esistenti di quella grande rivoluzione silenziosa chiamata “Blind Joe Death”.
John Fahey morirà il 22 febbraio 2001 in seguito ad un attacco di cuore a soli 61 anni.

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