Jackson C. Frank – “Jackson C. Frank 1965”

(Massimo Tinti)

Jackson C. Frank incise questo disco in sole sei ore nel luglio del 1965; chitarra e voce e poi sparì. La registrazione presso gli studi CBS di Londra fu una tribolazione, molto simile a quella di “Pink Moon” di Nick Drake: stessa volontà di scrivere un testamento per poi perdersi lontano, fra le rovine fumanti di un destino infame.

Già a quel tempo Frank non aveva più nemmeno un sogno nella testa, soltanto ricordi terribili di un’infanzia segnata da eventi luttuosi e schizofrenia, con il corpo piagato fin da bambino da un incendio, l’anima rubata da un fantasma. A Londra c’era finito dopo aver riscosso un’assicurazione, con una chitarra da deci dollari e qualche bella canzone che aveva scritto girovagando nella sua New York. Quando pensa di aver fatto un’altra cosa sbagliata andando tanto lontano da casa, Frank incontra Paul Simon che si innamora della sua “Blues Run The Game” e lo porta in studio per registrare dieci canzoni con gli occhi tristi. Durante quella seduta Frank chiede che nessuno doveva guardarlo suonare e cantare, non uno che poteva vedere come le sue combinazioni si mettevano in moto. Ogni tanto Simon lo aiuta con la chitarra e così fanno pure Art Garfunkel e Al Stewart (quello che diventerà strafamoso con “Year Of The Cat”); tutti e tre dall’altra parte di un pannello che divide la sala in due, espediente questo per lasciare agire indisturbata la timidezza del protagonista. La debolezza della natura umana che prende forma ha del prodigioso, schiacciata dall’angoscia ma pure dalla poesia, da colpi di bellezza che lasciano senza fiato. Frank sa che quella è la sua occasione e per una volta non da retta al suo petto oppresso e va avanti, fino in fondo, fino a zittire quello sventurato battaglione della sua insicurezza.

Ogni tanto si sente l’influsso di Bob Dylan, una cosa appena visibile che si allontana di corsa per lasciare spazio ad una luminosa originalità, ad un folk che parla faccia a faccia toccando il cuore. Le mani ustionate sembrano piene di tatuaggi, di storie che finiscono nella chitarra, di nuvole che passano all’improvviso nella mente. La voce è quella di un ragazzo di ventidue anni che sa emozionare semplicemente uscendo, commovente anche quando si spezza, quando spedisce una lettera in sogno a Fred Neil, Tim Hardin, Roy Harper. Tocca poche corde alla volta Frank e i suoi occhi sono umidi come le parole, ma ricorda con precisione e nota per nota dove vuole portare l’ascoltatore, come intende farselo amico per sempre. Solo chi possiede il più grande dei talenti può scrivere canzoni al pari di “Kimble”, “Yellow Walls” e “Here Come The Blues”; oppure cose che tremano e che non riescono nemmeno ad alzare lo sguardo come “Dialogue” e “Just Like Anything”. Mentre verranno copiate da tutti e senza scusarsi “Milk And Honey”, “My Name Is Carnival”, “You Never Wanted Me”, “Blues Run The Game”; persino da Roy Harper e Tim Buckley, fino a terminare sul leggio di cristallo di Nick Drake.


Nel fare il disco Frank si è giocato tutti i sentimenti e l’ossigeno e non può fare altro che mollare; anche se tutti lo cercano e l’album vende, anche se Paul Simon grida forte il suo nome nei pochi concerti che seguirono. Col tempo sempre più spesso la gente si abitua a vederlo per strada, senza fissa dimora dopo aver perduto anche un figlio per fibrosi cistica, sempre con la sua chitarra da quattro soldi graffiata dall’umidità delle notti al freddo. Prima di morire per polmonite a 56 anni, Frank è vissuto di carità, dentro una rumorosa città che non sapeva niente di lui, di come si possa gettare via in un solo gesto tutta la grandezza di questo mondo.

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