Jack Johnson e la saga elettrica di Miles Davis (1° parte)

“When I started playing against that new rhythm first I had to get used to it. (…) Playing the new shit was a gradual process.”

(Maurizio Galli)

120.000 furono i dollari offerti a James J. Jeffries, ex campione mondiale dei pesi massimi, per sfidare sul ring John Arthur Johnson, conosciuto dai semplicemente come Jack. Come non accettare una simile sfida? In fin dei conti mai una cifra simile era stata raggiunta per un singolo incontro di pugilato. E poi quella sarebbe passata alla storia come “la sfida del secolo” in cui un bianco sfidava sul ring un negro. L’incontro ebbe luogo a Reno, nel Nevada, il 4 luglio 1910 davanti a un pubblico di 20.000 persone. Jeffries si dimostrò incapace di tenere testa al campione più giovane e così, senza grandi difficoltà, Johnson dominò ampiamente il match. Nel quindicesimo round, dopo che Jeffries era già stato messo al tappeto due volte per la prima volta in carriera, i suoi secondi gettarono la spugna per far terminare la contesa ormai dal chiaro esito segnato.

Sessant’anni dopo quell’incontro…

Primavera 1970. In quel periodo Miles Davis, ancora fresco della pubblicazione di due album avveniristici come In a Silent Way e Bitches Brew, si stava concentrando sullo sviluppo dei suoi spettacoli dal vivo. La band – che includeva alcuni dei più grandi session-man jazz dell’epoca come il bassista Dave Holland, il tastierista Chick Corea e il batterista Jack DeJohnette – era un tutt’uno con il leader nel voler spingere le idee musicali che aveva introdotto nei suoi dischi in un territorio ancora inesplorato per una realtà jazz live. Non bisogna poi dimenticare che proprio in quel periodo Davis stava sviluppando l’innovativa idea di utilizzare lo studio di registrazione al pari di uno strumento compositivo.

Nonostante tutti gli impegni e i pensieri, quando decise di comporre la colonna sonora dell’oscuro documentario sull’icona della boxe Jack Johnson, scoprì di avere molte più idee in testa di quante ne potessero contenere i due lati di un singolo LP. Così l’anno successivo, anche grazie alla proficua collaborazione del produttore Teo Macero, venne portata a segno l’ardua operazione di unire le innumerevoli riprese registrate in quel periodo in un’unica coerente versione da 40 minuti: A Tribute to Jack Johnson.



Per l’omonimo documentario di Bill Cayton sulla vita del pugile – ricordiamo che la prima colonna sonora scritta dal trombettista fu Ascenseur pour l’échafaud nel 1957 – Davis si ispirò molto sia al contesto politico e razziale in cui si dipanava la saga del pugile che a sonorità tipiche del periodo come l’hard rock e il funk.
Già dal 1967 l’influenza di un certo sound e di Jimi Hendrix in particolare avevano iniziato ad insinuarsi nella musica di Miles Davis. La folgorazione la ricevette il giorno di Capodanno del 1970, quando partecipò al secondo dei due leggendari concerti della Band Of Gypsies di Hendrix che infiammò il Fillmore East di New York. Dopo aver visto, e ascoltato con le sue orecchie, cosa era in grado di sprigionare un chitarrista accompagnato solo da un bassista e da un batterista, Miles trascorse gran parte della prima metà del 1970 a registrare con band sempre più piccole e guidate da chitarre.

Ma torniamo a Jack Johnson…

La “vera” sostanza di A Tribute to Jack Johnson venne registrata in due sessioni: il 18 febbraio e il 7 aprile 1970 e pubblicato il 24 febbraio 1971 dalla Columbia Records. Come studio di registrazione venne scelto il CBS 30th Street Studio di New York City, noto anche come “The Church”. Rispetto alle formazioni di Bitches Brew, quella messa in campo fu, secondo lo stesso Davis, “la più grande band rock and roll che tu abbia mai sentito” (Tingen P., Miles Beyond: The Electric Explorations of Miles Davis 1967–1991, 2001 Billboard Books): Miles Davis alla tromba; John McLaughlin e il suo futuro compagno di Mahavishnu Orchestra Billy Cobham, rispettivamente alla chitarra e alla batteria; il bassista elettrico rhythm & blues Michael Henderson; il sassofonista soprano Steve Grossman; Herbie Hancock (che quel giorno si presentò inatteso) all’organo Farfisa; e, in “Yesternow”, Sonny Sharrock alla seconda chitarra elettrica (non accreditato).

L’album si compone di due canzoni, ciascuna originariamente su un lato del disco in vinile: “Right Off” e “Yesternow”, ciascuna lunga circa venticinque minuti.

La composizione di “Right Off”, secondo quanto dichiarato negli anni da John McLaughlin, iniziò durante un improvvisazione shuffle dello stesso McLaughlin a cui Davis diede seguito con la sua tromba che, potremmo definire essenziale, e trasformando il brano nella cosa più vicina alla musica rock che Miles abbia mai provato. Il tutto sapientemente accompagnato dal controtempo della batteria di Cobham, dal tocco inimitabile del basso di Henderson (con un riff che strizza l’occhio a “Sing a Simple Song” di Sly and the Family Stone, ), dal soprano strappalacrime di Steve Grossman e, mai così vero, last but not least Herbie Hancock, arrivato in studio per caso e “costretto” a suonare (sull’organo Farfisa) un assolo pieno di sentimento .

“Yesternow”, costruita attorno a una versione leggermente modificata della linea di basso della canzone di James Brown “Say It Loud – I’m Black and I’m Proud”, ha un’impronta decisamente più languida rispetto al brano di apertura; languido sì ma decisamente non pastorale. Ancora una volta, i lunghi assoli di Miles sono assolutamente magistrali e lungi dall’essere sentimentali. L’aspetto più interessante di “Yesternow” è come tutta la sua tensione drammatica si manifesti nonostante il ritmo statico e incerto: McLaughlin e un Sonny Sharrock non accreditato costruiscono un muro di puro sound elettrico mentre Cobham che a tratti ricorda il compianto Charlie Watts. Il brano, e di conseguenza il CD, si conclude con la voce fuori campo dell’attore Brock Peters che recita: “Sono Jack Johnson, campione del mondo dei pesi massimi. Sono nero. Non me lo hanno mai fatto dimenticare. Sono nero, eccome. Non permetterò mai che lo dimentichino.”

Mentre Bitches Brew, l’album in studio che lo ha preceduto, aveva contribuito a innescare la fusione tra il jazz e il rock, A Tribute to Jack Johnson è stata l’avventura rock più sfacciata ed efficace del trombettista, il punto di svolta nella carriera di Davis. Un album che se era destinato a sfondare nel pubblico rock dei primi anni ’70 ma che purtroppo non è riuscito nel suo intento. Nonostante fosse musica forte, amplificata e improvvisata, era troppo dura e forse troppo nera per i fan dei Grateful Dead o del Charles Lloyd Quartet e così a differenza di Bitches Brew, A Tribute to Jack Johnson appena pubblicato vendette poco: forse anche a causa della raffica di nuovi album elettrici pubblicati dallo stesso Davis. Nonostante le non eccellenti vendite, e la poca promozione da parte dell’etichetta, l’album comunque riuscì a piazzarsi al numero quattro della classifica jazz della rivista Billboard e al numero 47 della classifica R&B.
Coloro che, come chi scrive, apprezzano gli album elettrici di Miles e che si apprestano all’ascolto devono sapere che con A Tribute to Jack Johnson ci si trova davanti un album profondo e a suo modo infinitamente misterioso; al suo interno ci si può dimorare affascinati per lunghi periodi.

Il disco è stato originariamente pubblicato con la copertina sbagliata: una rappresentazione di Johnson nella sua auto, illustrata in uno stile tipico dell’epoca. La copertina prevista, una foto di Davis che suona la tromba in una posizione piegata all’indietro, è stata utilizzata nelle successive stampe.

Nel 2003, l’album originale è stato ristampato come parte di The Complete Jack Johnson Sessions, un cofanetto di cinque dischi con musica inedita delle sessioni di registrazione.

Formazione:
Miles Davis: tromba; Steve Grossman: sassofono soprano; Herbie Hancock: organo; John McLaughlin: chitarra elettrica; Michael Henderson: basso elettrico; Billy Cobham: batteria; Sonny Sharrock (non accreditato, presente solo nel secondo brano): chitarra elettrica.

Elenco tracce:
1. Right Off
2. Yesternow

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