Iron Maiden – Senjutsu

(Andrea Romeo)

Puntuale, ad ogni uscita degli Iron Maiden, il tam tam mediatico musicale inizia a farsi sentire per lo meno un anno prima… se poi ci si mette di mezzo una lunga pandemia, e si viene a sapere che il lavoro è già pronto, e chiuso in cassaforte (letteralmente, dal 2019… non a caso non sono uscite anticipazioni di alcun genere) il fenomeno diventa ancora più evidente e dilatato nel tempo.

La pubblicazione di Senjutsu era ovviamente attesissima dai fans della band, e del metal in generale e, come accade ormai da almeno vent’anni, portava con sé domande e questioni che, nell’ambiente, sono da tempo diffusamente dibattute; il tutto ruota, fondamentalmente, intorno ad un quesito di fondo, ovvero su quanto il nuovo album potrà essere simile, o dissimile, rispetto al sound delle origini; la risposta del sestetto, fondato nel 1975 a Leyton dal bassista Steve Harris, non poteva essere più chiara: proseguendo il percorso iniziato nel lontano 1988 con Seventh Son of a Seventh Son, e proseguito, dopo un break di una decina d’anni, con i successivi Brave New World, Dance of Death, A Matter of Life and Death, The Final Frontier e The Book of Souls, la band si è allontanata definitivamente dal sound quasi punk-metal delle origini, ampliando sempre di più il proprio approccio alla composizione, all’interno della quale sono ormai presenti, in maniera rilevante, influenze progressive che si esprimono in passaggi strumentali articolati e numerose variazioni ritmiche, determinando quindi una maggiore lunghezza e complessità dei brani stessi.

Va detto che, una band in circolazione da ormai quasi cinquant’anni, e capace di raggiungere un successo andato ben oltre l’ambito del genere metal, in linea teorica non dovrebbe avere davvero più nulla da dimostrare: Harris e compagni, al contrario, continuano a mostrare la capacità, ma soprattutto il forte desiderio, di rimettersi costantemente in discussione, album dopo album, rinunciando a priori a muoversi su territori conosciuti, magari già battuti, tutto sommato “comodi”, e cercando invece nuove suggestioni e nuovi percorsi da aggiungere alla loro avventura musicale.

Come per il precedente The Book of Soul, i Maiden si sono ritagliati tutto lo spazio necessario, realizzando un altro album doppio in cui i brani non hanno alcun vincolo di durata: tante le idee a disposizione, tanti gli stimoli, ed ecco allora la necessità di avere tutto lo spazio necessario per poterli concretizzare.

Senjutsu, già dal primo ascolto, mette in chiaro ciò che sono gli Iron Maiden nel 2021, grazie ad un sound decisamente epico, solenne, all’interno del quale l’aspetto più evidente ed immediatamente percepibile è il grande ed articolato lavoro delle chitarre: Adrian Smith, Dave Murray e Janick Gers, dopo ben due decenni di partnership, hanno raggiunto un livello di interazione e di interplay davvero straordinario, e lo dimostrano immediatamente, già dai primi due brani.

Senjutsu, l’opening maestosa firmata Smith-Harris, e Stratego, cavalcata tipicamente Maiden-style ad opera di Gers-Harris, sono le prime due facce di una medaglia che, nel momento in cui ci si addentra all’interno delle pieghe dell’album, scoprirà poco per volta tutte le sue altre numerose e variegate facce.

Non ci vuole molto a capire che gli Iron Maiden, più che in altre occasioni, abbiano scelto di confrontarsi con stili musicali non consueti nel loro background, per cui può certamente sorprendere, ma non stupisce affatto che The Writing on the Wall, il primo singolo uscito prima della pubblicazione dell’album, abbia ad esempio una forte impronta southern, grazie ad un’intro inusuale ma sulla quale il marchio della vergine di ferro è ben presente.

Bruce Dickinson, reduce da un periodo davvero complicato, dal punto di vista della salute, riesce a dribblare tutti gli ostacoli fornendo una prestazione vocale eccellente nonostante il fatto che, la varietà degli stili, lo obblighi ad approcci sensibilmente differenti; chi invece non risente affatto di queste variazioni è Nicko McBrain, che si muove in totale scioltezza anche in brani come Lost in a Lost World, che lo obbligano a ripetuti e repentini cambi di tempo; e se qui il riferimento a Brave New World è abbastanza evidente, con le successive Days of Future Past e The Time Machine, i richiami a Seventh Son of a Seventh Son sono decisamente palpabili, e non soltanto per i fans di più stretta osservanza, non fosse altro che per quelle tastiere “sotterranee”, che tanto riportano alla fine degli anni ’80, e grazie ad un Dickinson che introduce i brani da buon narratore e poi sviluppa il racconto grazie ad un continuo saliscendi vocale che, al netto del soprannome ormai consolidato di Air Raid Siren, ne valorizza anche le tonalità medie e basse.

Il secondo disco è, come ipotizzabile, sensibilmente differente: si apre con l’oscura e malinconica Darkest Hour in cui lo storico Dickinson, ed il fabbricante di riff Smith, mettono insieme un brano che racconta di tragedia e desolazione, grazie ad un continuo e vivido crescendo drammatico, incorniciato da un lungo finale in cui le chitarre regalano sprazzi di poesia quasi commoventi.

Il trittico finale è opera, in solitaria, del bassista londinese che mette in fila tre brani, Death of the Celts, The Parchment ed Hell on Earth, in cui da libero sfogo al proprio amore, sempre orgogliosamente dichiarato, per la musica progressive.

Death of the Celts è, per certi versi, un vero e proprio esercizio di storytelling, in cui Dickinson introduce la narrazione, si “ritira” per ben sei minuti (!!!), lasciando spazio ad una sorta di duello chitarristico, per poi riannodare i fili del racconto e condurre a conclusione la storia; anche la successiva The Parchment non contiene ritornelli da stadio, se non verso la fine, ma si caratterizza per un lento e continuo cambio di velocità, oltre ad un finale che rimanda senza ombra di dubbio a Fear of the Dark e dintorni, mentre la conclusiva Hell on Earth, letteralmente un patchwork di diverse parti abilmente assemblate, dopo un’intro acustica riporta la memoria agli anni d’oro della N.W.O.B.H.M. grazie alle chitarre, ancora una volta in grandissima evidenza, impegnate nel creare prima una ritmica serrata, nel tipico stile della band e delle sue cavalcate, poi uno sviluppo ricco di strutture ed incroci tanto complessi quanto fluidi, ed infine una chiusura assolutamente e totalmente maideniana.

Va ascoltato più volte, Senjutsu, un album che non è né immediato né immediatamente accessibile, soprattutto perché l’elaborazione strumentale che offre è talmente articolata da non essere subito percepibile; ascolto dopo ascolto, al netto ovviamente dei gusti personali, non solo si potranno apprezzare le molte soluzioni sonore che i Maiden hanno deciso di proporre, ma si percepiranno il loro entusiasmo e la continua voglia di crescere musicalmente, quella stessa voglia che, da diversi anni, cercano di trasmettere anche al proprio, affezionatissimo, pubblico.

Il loro marchio di fabbrica resta sicuramente indelebile mentre la loro visione musicale, pur mantenendo negli anni una solida coerenza di fondo, si è sempre più guardata intorno alla ricerca di elementi nuovi, differenti, e che potessero contribuire ad ampliare gli orizzonti artistici della band: chiedere di più, sinceramente, sarebbe davvero fare loro un enorme torto.

(Warner/Parlophone Records, 2021)

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