(Raffaella Mezzanzanica)
“Adoro le sfide” (Gavin Harrison)
“Sfida” è sicuramente la parola che Gavin Harrison ha usato di più durante questa intervista ed è la parola che meglio lo rappresenta.
E ce n’è un’altra: “Generosità”.
Iniziamo da “Sfida”.
Sin dagli inizi della sua carriera come turnista, Gavin Harrison ha dovuto affrontare tantissime sfide, accompagnando musicalmente artisti appartenenti ai generi più diversi, da Iggy Pop a Lisa Stansfield. Ha anche trascorso del tempo in Italia, registrando e andando in tour con Claudio Baglioni (Gavin ha anche partecipato all’ultimo album di Claudio Baglioni, “In questa storia, che è la mia”, in uscita il prossimo 4 dicembre) e ha anche collaborato con Franco Battiato.
Nel 2002, è entrato a far parte dei Porcupine Tree e ha registrato con loro l’album “In Absentia”. “Ho distrutto i Porcupine Tree” (Gavin Harrison). In quel periodo, infatti, Steven Wilson, fondatore dei Porcupine Tree, aveva già iniziato a dare una svolta “più rock” e “più metal” alla band. Gavin ha contribuito alla creazione di nuovi suoni, un vero punto di svolta.
Nel 2008, Robert Fripp, fondatore dei King Crimson, chiese a Gavin Harrison di unirsi alla band. La sua visione era quella di avere una band con due batteristi e voleva che Gavin suonasse ma anche che riarrangiasse i brani con questo obiettivo. Dopo uno stop di cinque anni, Robert Fripp ricostituì i King Crimson nel 2013, con una nuova visione e una lineup che comprendeva tre batteristi posizionati davanti sul palco e gli altri quattro componenti alle loro spalle.
A Gavin fu chiesto di ripensare i brani affinché potessero essere suonati da tre batteristi, realizzando così la nuova visione di Robert Fripp.
Nel 2016, Gavin Harrison entrò a far parte dei Pineapple Thief. A quel tempo, Gavin aveva già partecipato come turnista alla realizzazione del loro album “Your Wilderness” (2016). Dopo essere entrato a far parte della band come membro effettivo, ha contribuito alla scrittura dei brani dell’album “Dissolution” (2018) e, naturalmente, al più recente “Versions of the Truth”, pubblicato lo scorso 4 settembre.
Ovviamente c’è di più, perché a Gavin Harrison non piace andare sul sicuro.
Molto probabilmente non sapremo mai se egli abbia mai pensato di suonare con un quartetto d’archi o con un’intera orchestra. Ciò che sappiamo è che quando il suo caro amico, Antoine Fafard, gli ha proposto di partecipare proprio ad un progetto che includeva un quartetto d’archi e un’orchestra (e Jerry Goodman!), egli ha risposto subito di sì.
Il risultato di questo lavoro è l’album “Chemical Reactions” che sarà pubblicato l’11 dicembre 2020.
Si potrebbe andare avanti per ore a parlare di come Gavin Harrison abbia contribuito alla definizione del suono e del ritmo di molti, molti artisti, sul palco, sia davanti che alle spalle degli altri componenti della band, in studio di registrazione e, forse, in futuro, sospeso in aria. Il modo in cui suona è e sarà sempre impeccabile.
I risultati di queste sfide, di tutti i rischi presi, sono anche rappresentati dal numero di premi ricevuti nel corso degli anni. I lettori di Modern Drummer l’hanno nominato “Miglior batterista progressive dell’anno” dal 2007 al 2010 e ancora nel 2016 e nel 2019. La rivista Prog l’ha nominato “Miglior batterista” nel 2011, 2012, 2018 e 2019. Rolling Stone lo posiziona al “terzo posto tra i batteristi migliori degli ultimi venticinque anni”. E questi sono solo alcuni.
Passiamo ora alla sua “generosità”. Non c’è nessun altro artista così incline a condividere la propria esperienza e i propri “trucchi” con i fan, sia attraverso la pubblicazione di video, sia attraverso masterclass.
Nell’intervista di seguito, frutto di una Skpe call di un’ora, Gavin Harrison parla delle sue esperienze come musicista, ma si potrà anche scoprire come si è sentito nel momento in cui ha avuto l’opportunità di incontrare i suoi idoli, soprattutto quella volta, dopo un concerto di Iggy Pop a New York…
Q.: Negli ultimi tempi sei stato molto impegnato con due progetti: l’ultimo album dei Pineapple Thief, “Versions of the Truth”, pubblicato il 4 settembre e, naturalmente, l’album frutto della collaborazione con Antoine Fafard, “Chemical Reactions”, che verrà pubblicato l’11 dicembre. Ne parleremo a breve. Considerando questo periodo estremamente “strano” che stiamo tutti attraversando, come hai trascorso il tuo tempo in “lockdown”, musica a parte?
G.H.: Sono stato estremamente occupato. A dire il vero ho registrato diverse cose. Io e Antoine abbiamo registrato l’album all’inizio dell’anno e, quando ormai eravamo arrivati a metà progetto, lui mi ha chiesto: “Tu sai suonare la marimba, vero?”. E io gli ho risposto: “Beh, ho una marimba”. E così, ha iniziato a mandarmi parti da registrare con la marimba. Mi ci è voluto un sacco di tempo perché erano pensate per un musicista esperto di marimba. Sono stato poi coinvolto in altri progetti. Ho registrato (filmando) alcune cose. La prima è per “The Percussive Arts Society Convention”. Ho registrato una lezione della durata di 40 minuti e una performance. E per fare questo ci ho messo molto tempo. Non faccio le cose tanto per farle. Certo, non prendo un iPhone ed è tutto pronto in 5 secondi. Prendo sempre la strada più lunga. Ho preso la telecamera, ho registrato, mi sono occupato dell’editing, della registrazione multitraccia e così è diventato un progetto davvero importante. Ci sono voluti 5 giorni per una registrazione di 40 minuti.
Mi sono occupato della scrittura e della registrazione di altri brani con Bruce (Soord, n.d.r), per cui, sì, sono stato davvero molto impegnato.
Q.: “Chemical Reactions” è il titolo dell’album frutto della collaborazione con Antoine Fafard. Lo avete realizzato durante il lockdown? E, in caso affermativo, come siete riusciti a scambiarvi le idee e a registrarlo?
G.H.: Quasi tutto quello che faccio ora è in remoto. Per fortuna ho uno studio di registrazione a casa, lo stesso studio che ho utilizzato negli ultimi 23 anni, quindi realizzo il 99% delle mie registrazioni qui. Sfortunatamente, sono sempre da solo, quindi non c’è possibilità di avere un riscontro immediato. Ma con Antoine, lui abita a Londra, così ci sentiamo telefonicamente e ci scambiamo un sacco di messaggi. Non è stato difficile. Quando mi capita di collaborare con artisti che si trovano dall’altra parte del mondo, qualche volta devo aspettare anche 24 ore prima di sapere se almeno è piaciuto quello che ho fatto. E questo rende ancora più difficile avere uno scambio nel momento in cui si inizia a registrare. Prima, sarei stato nello studio con l’artista, il produttore e tutto ciò che era necessario. Avrei ricevuto un riscontro in tempo reale. Oggi, devi aspettare un giorno anche solo per avere una risposta. Con Antoine è molto semplice perché siamo sulla stessa lunghezza d’onda, musicalmente parlando. Andiamo nella stessa direzione. Per questo motivo, sono certo che lui scriverà cose che mi piacciono e lui sa benissimo che suonerò cose che piacciono a lui. E’ molto facile. Mi piace avere scambi di questo tipo.
Q.: L’album è composto da 5 brani registrati con un quartetto d’archi e 2 brani con orchestra. Ho guardato il video di presentazione dove hai dichiarato che è stato “un viaggio musicale affascinante” e anche “uno dei progetti più stimolanti” in cui tu sia mai stato coinvolto. Quale è stata la cosa più difficile? Suonare con un’orchestra?
G.H.: (Ride). Non ci sono molte parti per batteria all’interno di un’orchestra. Quindi, devi trovare la tua strada relativamente a come suonare, per fare in modo che le tue idee si inseriscano all’interno dell’orchestra stessa. Non volevo suonare la batteria in stile “karaoke”. Volevo essere parte dell’orchestra. Per questo motivo ci vuole più tempo, perché devi trovare un modo efficace per diventare parte integrante dell’orchestra, un modo organico e pieno di significato. Ecco perché mi ci è voluto più tempo per identificare se quello che avrei potuto suonare si sarebbe poi integrato, dal punto di vista sonoro, con l’orchestra.
Q.: E poi avete coinvolto Jerry Goodman al violino in uno dei brani (“Singular Quartz”). E’ stata la prima volta in cui hai collaborato con lui?
G.H.: No, no. Lui è un grande amico di Antoine e Antoine ha collaborato con lui in molteplici occasioni. La prima volta che mi è capitato di collaborare con Antoine, nel 2012, è stato per il suo album (“Occultus Tramitis”, n.d.r), in cui aveva scelto un batterista diverso per ogni brano. C’erano Simon Phillips, Dave Weckl, Chad Wackerman, Terry Bozzio. Io ho suonato la batteria nel brano di apertura e, in quel brano, c’era anche Jerry Goodman. Sì, è un grande onore poter lavorare con lui.
Q.: Ora vorrei tornare un po’ indietro nel tempo. Hai iniziato ad appassionarti alla musica grazie a tuo padre e hai iniziato la tua carriera come batterista professionista quando eri ancora giovanissimo, suonando e partecipando ai tour di artisti diversissimi tra loro. Hai anche collaborato con artisti italiani come Claudio Baglioni e Franco Battiato. Che cosa ti hanno insegnato tutte queste esperienze? E che cosa mi puoi dire degli artisti italiani con cui hai collaborato?
G.H.: Ah sì, è stato fantastico. Non sono cresciuto in Italia, quindi non sapevo chi fosse Claudio Baglioni quando, nel 1991, qualcuno mi ha contattato e mi ha detto: “Vorrei chiederti di venire in Italia a suonare con Claudio Baglioni.” E io ho risposto: “Ok, parliamone domani”. Appena terminata la chiamata ho chiamato un amico che vive a Milano e ho chiesto: “Dimmi. Chi è Claudio Baglioni?” Non riuscivo nemmeno a pronunciare il suo nome e, ovviamente, non sapevo se Claudio fosse un cantante che si esibiva nei club, nei bar, nei ristoranti o…negli stadi. “E’ molto, molto famoso in Italia. E’ davvero incredibile”. Così ho risposto: “Davvero?” “Sì. E so anche che Tony Levin sarà il suo bassista.” Ho risposto: “Fantastico!”. Così, sono passato da non sapere nulla di Claudio a trasferirmi in Italia. E, nei primi sei mesi, abbiamo suonato in luoghi incredibili, di fronte a un incredibile numero di persone. La cosa divertente era che tutti, tranne me e Tony, sembravano sapere le canzoni di Claudio Baglioni a memoria. So che non tutti amano Claudio Baglioni ma, la cosa divertente, è che ho appena finito di registrare anche il suo ultimo album, in uscita il 4 dicembre. Sì, alcuni amano Claudio, altri no. Tuttavia, ho scoperto che tutti gli italiani amano Franco Battiato. Ho incontrato persone che amano Claudio, Eros Ramazzotti, Eugenio Finardi e Fiorella Mannoia e persone che non li amano per niente. Ma non ho mai incontrato un italiano che non amasse Franco Battiato. Franco era una persona…è una persona davvero speciale. E mi è piaciuto moltissimo il suo atteggiamento. Lui è un vero artista. Non gli interessa vendere dischi, pubblicare la hit del momento o essere invitato in TV. Non gli interessava nessuna di queste cose. Ha un grande senso dell’umorismo e abbiamo trascorso dei bei momenti insieme. Penso di aver collaborato a quattro dei suoi album. E ci sono stati momenti molto divertenti. Nonostante il mio italiano sia terribile e il suo inglese pure, potevano percepire la personalità l’uno dell’altro attraverso la musica. C’è della magia che si realizza attraverso la musica. Anche se ti capita di lavorare con degli artisti e non capisci esattamente quello che stanno dicendo perché non parli italiano, puoi sentirne il carattere, la personalità all’interno della musica e della performance. Ho capito subito il primo giorno in cui l’ho incontrato che Franco mi sarebbe piaciuto. E abbiamo avuto una bellissima collaborazione. Aveva piena fiducia. Suonavo qualsiasi cosa e lui mi diceva: “Sì, Gavin, E’ bellissimo” (Ride) Anche se a me non piaceva, lui mi diceva: “Grande. Passiamo al prossimo brano”. E io gli rispondevo: “No, Franco. Non so se questo possa andare bene”. Quindi, sì, sono stato molto bene quando ho lavorato con Franco.
Un paio di volte siamo stati a Bath ai Real World Studios di Peter Gabriel mentre, un’altra volta, siamo stati a Parigi per registrare uno degli album di Franco. E poi lui ha questa canzone stupenda, “La Cura”. Qualsiasi italiano io abbia incontrato ama quel brano. Anche se non comprendo tutte le parole, è talmente facile capire che sia una canzone meravigliosa. Si può capire moltissimo di una persona attraverso la musica. Non hai necessariamente bisogno di capire le parole.
Q.: Parliamo del nuovo album dei Pineapple Thief, “Versions of the Truth”. Tu hai anche contribuito alla scrittura, qualcosa di nuovo per la band, in quanto fino ad allora è stato Bruce Soord a scrivere i testi. Come è stata questa esperienza? G.H.: Ho contribuito a scrivere i brani dell’album precedente, “Dissolution”, ma il primo album che ho registrato con loro s’intitola “Your Wilderness”. Ho avuto la stessa sensazione positiva di quando ho registrato con Franco Battiato quando ho iniziato a interagire con Bruce e a percepire delle sensazioni positive. Mi ha semplicemente lasciato fare ciò che volevo. Per “Your Wilderness” ero semplicemente un turnista e lui mi ha, comunque, lasciato fare ciò che volevo, anche riarrangiare le canzoni. Gli dicevo: “Guarda. Penso che questa parte sia troppo lunga. Questa parte è troppo corta. Penso che questa parte possa essere migliorata attraverso una diversa suddivisione dei tempi”. E lui mi rispondeva: “Ok. Mi faresti una demo per farmi capire che cosa intendi?”. Gli facevo una demo e lui: “Sì. Mi piace. Suona esattamente in questo modo.” In effetti, ho contribuito molto a “Your Wilderness”, più di quanto farebbe normalmente un turnista. E così abbiamo iniziato questa collaborazione. Poi lui mi ha detto: “Cosa ne pensi di suonare con noi in un breve tour?” E sono partito in tour con loro. E, ancora: “Cosa ne pensi di scrivere delle canzoni per il prossimo album?” E’ stato molto divertente. Sono sempre molto felice di incontrare persone con cui ho un buon feeling, quindi, sì, è stato molto divertente. E, sì, “Versions of the Truth” è un avanzamento rispetto all’album precedente, “Dissolution”, e abbiamo sicuramente trovato dei suoni molto interessanti.
Q. “Versions of the Truth” è stato registrato nel periodo di lockdown?
G.H.: No. E’ stato registrato prima. Abbiamo finito il mixing durante il lockdown. Ma, sai, alla fine è la stessa cosa. Bruce abita a tre ore e mezza da me. Io vivo a Londra. John, il bassista, abita a circa due ore e Steve, il tastierista, è a quattro ore di distanza. Tutte le nostre registrazioni avvengono sempre separatamente.
Q.: Molti sostengono che i Pineapple Thief siano più “rock”, mentre i Porcupine Tree siano più “psichedelici, malinconici”, anche se, è innegabile la svolta rock dei Porcupine Tree, da quando sei entrato a far parte della band. Sei d’accordo con questa affermazione?
G.H.: Ah sì. I Porcupine Tree…li ho distrutti! Alcuni fan pensano che io li abbia distrutti. Voglio dire…quando sono entrato a far parte dei Porcupine Tree, la band stava già iniziando una nuova strada, più orientata al rock, al metal e, per quanto mi riguarda, era per me una delle primissime volte che mi capitava di suonare “metal”. Ho suonato punk con Iggy Pop molto tempo prima, ma dopo quell’esperienza, ho sempre suonato più R&B, soul e pop, cose così. I Porcupine Tree sono stati una vera sfida per me. Adoro le sfide. Mi piace vedere se riesco a suonare in modo diverso. E’ stato un nuovo inizio per me. Quando mi hanno chiesto di unirmi a loro, i Porcupine Tree avevano già nove anni di carriera alle spalle. Prima del mio arrivo, la band aveva un suono che ricordava quello dei Pink Floyd o lo space rock. Subito dopo, siamo diventati più “rock” e più “heavy”.
Q.: Parliamo ora della tua esperienza con i King Crimson. Che cosa si prova ad essere parte di questa incredibile band e di poter lavorare e creare con loro?
G.H.: Sì. In effetti sono diversi da qualsiasi altra band di cui abbia fatto parte. E’ una band davvero speciale ed hanno un suono davvero speciale, quasi un genere a sé. Robert (Fripp, n.d.r) incoraggia sempre molto. Mi dice: “Puoi suonare quello che vuoi, ma non suonare mai in modo banale. Non suonare dei noiosi “rock beats”. Fai quello che vuoi”. E questa è una sfida davvero interessante. Quando, nel 2008, sono entrato a far parte della band, c’eravamo io e Pat Mastelotto, due batteristi. Un’idea del tutto nuova per me, anche se mi era già capitato di dividere il palco con un altro batterista, Elio Rivagli, in uno dei tour di Claudio Baglioni. Tuttavia, quella era una cosa molto diversa. Così, nel 2008, mi sono unito alla band e suonavo con Pat Mastelotto, Tony Levin, Robert Fripp e Adrian Belew. Ed è stato molto, molto interessante. Musica interessante e arrangiamenti interessanti e la sfida consisteva nell’integrare le parti di batteria per due batteristi. Poi, alla fine del 2008, la band si sciolse. Robert Fripp ricreò i King Crimson nel 2013, questa volta con tre batteristi. Mi chiese di arrangiare le parti di batteria per i tre batteristi. Quella è stata una grande sfida, soprattutto perché i brani originali dei King Crimson sono stati scritti per un unico batterista. Si trattava, quindi, di ripensare totalmente come suonare quei brani. Robert mi disse: “Non voglio che siano identici agli originali. Non devi lasciare i suoni come nei brani originali. Pensa che siano nuovi brani, senza tener conto di quando siano stati scritti, facendo in modo che anche se si tratta di un brano scritto nel 1969, deve sembrare un brano nuovo. E puoi fare ciò che vuoi con i tre batteristi.” E’ stato un progetto molto, molto, molto importante che mi ha impegnato moltissimo negli ultimi sei anni.
Q.: Ero a Umbria Jazz nel 2019, prima fila. Non ho potuto fare a meno di notare gli sguardi che vi scambiavate. Sono assolutamente certa che sia sufficiente un solo sguardo per capire cosa fare. Quando suonate dal vivo, quanto è frutto di prove e quanto, invece, è improvvisato? E, soprattutto, qual è la sensazione di dividere il palco con altri due batteristi? Ti piace stare di fronte al pubblico?
G.H.: Robert ha una visione e penso che per ogni band sia importante avere una visione. E Robert ha una visione. Si è svegliato un giorno e mi ha detto: “Ho pensato a una nuova versione dei Crimson con tre batteristi di fronte al pubblico e quattro altri musicisti dietro, su una pedana”.
Si immaginava già come sarebbe stato visivamente, ancora prima di come sarebbe stato il suono. E’ davvero strano avere i batteristi di fronte al palco. Ed era strano per me, perché sono sempre stato dietro, su una pedana. La solita posizione. Ma questo setup non pone l’accento sul cantante come leader della band. Il setup della band nel 2008 era più tradizionale, con me e Pat dietro, Andrian Belew al centro, di fronte, che parlava al pubblico. In questo modo di creava la solita relazione tra cantante e pubblico. Ora, nella nuova versione dei King Crimson, Jakko, il cantante, è dietro e non si rivolge mai al pubblico. E’ quasi come se fossimo un’orchestra e non una rock band. E il problema con le band rock è che il focus è sempre sul cantante. E il cantante parla al pubblico e il resto della band sta dietro. Questo è un modo nuovo e diverso di presentare una rock band, dove il focus non è solo sul cantante. E’ stata una mossa molto intelligente da parte di Robert. E’ come se fossimo una orchestra prog, rock ’n’ roll. E non c’è conversazione con il pubblico. E’ esattamente come se fosse la performance di un’orchestra. Tutto questo è stato molto interessante per me. E’ strano stare davanti. Abbiamo posizionato le tre batterie in modo che potessimo vederci. E’ difficile, ma ce l’abbiamo fatta. Potevo vedere Pat e Jeremy oppure Bill, il batterista precedente. Possiamo avere un contatto visivo. La sola persona che non posso vedere è Robert. Ma forse questo è un bene…
(Io: Ma lui può vedere tutti. E può vedere se il pubblico scatta fotografie! Perché sappiamo che non permette a nessuno di scattare foto…).
G.H.:Infatti, quel concerto era all’aperto, giusto? E ha piovuto nel pomeriggio. Mi ricordo. E’ stato l’ultimo show del nostro tour europeo.
Q.: Hai dichiarato che quando Robert Fripp ti ha contattato e ti ha chiesto di entrare a far parte dei King Crimson, tu, molto onestamente, gli hai risposto di non conoscere i loro brani. Lui ti ha detto: “Ancora meglio!”. Quindi, come ti sei relazionato alla loro musica e a brani iconici come “21st Century Schizoid Man”?
G.H.: Conoscevo e avevo ascoltato solo qualche brano. Eh, sì, hai ragione. Ho detto a Robert: “Sai, non conosco molto bene la vostra musica”. E lui ha pensato che fosse anche meglio. Quando ascolti brani come “21st Century Schizoid Man”, insomma, sono brani inusuali. E sono molto divertenti da suonare. Non è che io abbia “scoperto l’acqua calda”. Era un brano che aveva solo bisogno di essere suonato bene e di essere ben orchestrato. Ci sono momenti in cui improvvisiamo, ma quando i tre batteristi suonano contemporaneamente dobbiamo avere una “coreografia”, altrimenti sarebbe solo caos. Ci sono, però, delle parti in molti brani in cui è un solo batterista a suonare e, in quel momento, puoi improvvisare. Infatti, io faccio un assolo in “21st Century Schizoid Man”. Sei davvero incoraggiato ad improvvisare il più possibile, ma alcune parti hanno significato solo se suonate da tutti e tre i batteristi in modo coordinato.
Q.: ”The music of the future will not entertain/it’s only meant to repress and neutralize your brain” (*Porcupine Tree – The Sound of Muzak – Album: In Absentia). Sono sicura che conosci questo brano.
(Ride) Conosco questo brano. L’abbiamo suonato tantissime volte.
Questo brano è stato scritto nel 2002. Quasi vent’anni dopo, queste parole hanno per te ancora lo stesso significato? Qual è il tuo pensiero sulla musica di oggi e la tua visione sulla musica tra vent’anni?
G.H:: Dipende dall’età. La musica di oggi non mi emoziona nel modo in cui mi emozionava quando ero più giovane. Penso che la musica che si ascolta nell’età compresa tra i 15 e i 20 anni sia quella che plasma tutta la tua vita. In quella parte della vita in cui sei suggestionabile, la musica ha così tanto significato che ti entra dentro. E, in effetti, ascolto ancora molte delle cose che ascoltavo proprio in quella parte della mia vita. Ad esempio, mio padre è cresciuto negli anni ’40 e ’50. Ascoltava il jazz, il bebop, le big bands. Quando, agli inizi degli anni ’60, sono arrivati i Beatles e i Rolling Stones mio padre mi disse: “E’ la fine della musica. Questa è spazzatura. E’ solo rumore”. Arriva un punto nella vita in cui ti trovi ad ascoltare novità musicali di artisti giovani e pensi: “Questo è solo rumore!”. E poi pensi: “Ora sembro proprio mio padre”. Ci sarà sempre nuova musica che avrà un grande significato per chi l’ha creata o per gli ascoltatori di quell’età. Non penso che i quindicenni di oggi si mettano ad ascoltare le stesse cose che ascoltavo io quando avevo la loro stessa età. Questa è l’evoluzione, no? Ascolto cose interessanti di musicisti, ma non so praticamente nulla della musica pop contemporanea. Non saprei nemmeno dirti quali siano i dieci artisti nella top ten o chi sia davvero famoso. Spesso la gente mi dice: “Conosci questa band?” E io rispondo: “No. Non li ho mai sentiti nominare”. “Cosa? Saranno gli headliner del prossimo Festival di Glastonbury.” E io dico: “Non li ho mai sentiti”. Perdi il senso di ciò che è considerato davvero moderno perché sei più “maturo”.
Q: E per quanto riguarda la tecnologia? Mi spiego. La tecnologia sta giocando un ruolo fondamentale nella vita di tutti noi, soprattutto in momenti come questo. Qual è l’importanza della tecnologia nella musica? Secondo te, gli artisti di ne usano troppa?
G.H.: Non mi interessa molto. Alla fine, quello che conta è il risultato. E l’unica cosa che conta è: “Mi piace?” Non mi interessa se hanno campionato delle parti, se hanno usato l’Auto-une, se è tutto “corretto” utilizzando un computer. Ok, puoi usare tutti gli strumenti che la tua generazione ha a disposizione. Quando negli anni ’60/’70 fu introdotta la “registrazione multitraccia”, ci si poteva registrare autonomamente, cantando l’armonia. Era qualcosa di impossibile fino ad allora. E se torniamo indietro di cent’anni, a quel tempo non c’era praticamente nessun tipo di musica registrata. Se si voleva ascoltare della musica bisognava andare ad ascoltare una band dal vivo, o un’orchestra. Va bene così. Non penso che nessuno stia “barando” utilizzando questi strumenti perché, alla fine, è come avere una tela su cui dipingere con qualsiasi strumento o tipo di colore si voglia. La sola cosa che mi interessa è: “E’ un buon lavoro? Mi piace? Mi trasmette qualcosa dal punto di vista artistico?” Non deve essere perfetto. Non deve avere strumenti acustici. Potrebbero esserci anche solo sintetizzatori e drum machines. Un esempio interessante in questo senso è quello dei Blue Nile. La prima volta che li ho sentiti, non c’erano “veri musicisti”. Erano solo drum machines, sintetizzatori e un cantante incredibile. E mi è piaciuto tantissimo. Ho potuto percepire la loro intenzione artistica. Penso che quello che si vuole raggiungere, alla fine, sia una specie di connessione con l’artista, sia che stia lavorando con la pittura, una pietra, della plastica o realtà virtuale in 3-D. Significa qualcosa per te? Ti cambierà la vita? Ti farà vedere il mondo in modo diverso o ti farà avere una reazione diversa, ad esempio facendoti sentire triste, malinconico o felice? E alcune cose non hanno alcuna connessione con te. Non percepisco nulla. Ma la tecnologia è utile in quanto puoi fare musica con artisti che vivono in tutto il mondo, persone che non hai mai incontrato e puoi produrre un album dal suono incredibile. Non ho mai incontrato alcune delle persone con cui ho collaborato. Non ho nemmeno mai parlato con loro al telefono. Tutto è stato fatto attraverso scambi di e-mail e file. Non importa. La sola che conta è il risultato. E se il suono è quello giusto, se quell’album unisce le persone, allora è un successo.
Q.: L’ “architettura del suono” è un’altra cosa molto importante. Suoni e generi diversi “appartengono” a luoghi diversi. Tu hai avuto l’opportunità di suonare in location estremamente diverse tra loro (dai piccoli club con i Porcupine Tree agli stadi con Claudio Baglioni) e per un pubblico estremamente variegato. C’è un tipo di location in cui ti trovi più a tuo agio o in cui non vedi l’ora di suonare?
G.H.: Personalmente non mi piace suonare all’aperto perché, per chi suona la batteria è importante sentire il suono nella sala. La verità è che, a meno che tu non stia suonando in un jazz club, non puoi sentire gli altri musicisti. E questo non ti permette di bilanciare il tuo suono in modo organico. Nel momento in cui ti trovi a suonare in grandi club, arene, stadi, l’approccio diventa lo stesso utilizzato in studio di registrazione. Tutti hanno dei monitor e ascoltano dei mix in formato digitale. Questo significa che potresti essere sul palco, in camerino, in un altro Paese, e comunque ti ritrovi in un strano mondo isolato, irrealistico, come se fossi in uno studio e ognuno fosse in una stanza separato dagli altri. E’ come se tutti stessero suonando con le cuffie. Questa è ormai la normalità. Per questo motivo, alla fine, ti abitui all’utilizzo delle cuffie con i mix. Ti abitui ad avere controllo del volume dei diversi elementi ed è strano. E’ come recitare di fronte a un “green screen”. Ci fai l’abitudine. E alla fine diventa una cosa normale. Quando ho iniziato a suonare con Claudio Baglioni nelle arene sportive utilizzavo le cuffie e “click tracks”. Stai presentando un’illusione. Le persone sedute tra il pubblico, il mix che stanno ascoltando è responsabilità del tecnico del suono. In un jazz club con 100 persone, il mix e il suono sono sicuramente più nelle mani dei musicisti, nel modo in cui suonano, nel volume e nel loro bilanciamento. Ma, andati oltre il jazz club, devi utilizzare i monitor e, di conseguenza, ti ritrovi in un mondo totalmente diverso e quel mondo è diventato la normalità. Ti abitui ad avere le cuffie e a sentire attraverso il mixer. Qualcuno potrebbe essere di fianco a te a suonare la chitarra e tu non riusciresti nemmeno a sentirlo. E’ un po’ innaturale ma è il modo in cui oggi si fanno i concerti, esattamente lo stesso con cui si registrano gli album. Ognuno suona singolarmente, isolato dagli altri, anche in parti diverse del mondo. Ma l’illusione, quando una persona ascolta e chiude gli occhi, è quella che i musicisti siano tutti nella stanza e che stiano suonando insieme. E’ come fare un film, no? Un film della durata di 30 minuti non si fa certo in 30 minuti! Ci vogliono mesi e mesi. Alla fine, si procede con l’editing e il tutto diventa qualcosa di credibile.
Q. Se posso chiedere: è successo anche alla Royal Albert Hall? Indossavi le cuffie anche in quell’occasione? G.H.: Certo. Con le cuffie sei totalmente isolato dal punto di vista acustico. Non puoi sentire nulla di ciò che succede all’esterno. In una sala come la Royal Albert Hall, non puoi sentire il suono della sala stessa. Io preferisco suonare nei teatri e nelle sale da concerti. Suonare nei palasport…sai…non sono certo stati costruiti per la musica. Sono stati pensati per lo sport. Quindi, possono capitare cose spiacevoli. A Roma, il PalaEur ha un’acustica orribile proprio perché non è stato concepito per ospitare concerti. Sono stato al concerto di Peter Gabriel a Earl’s Court. Earl’s Court è una sala esposizioni. Tra una canzone e l’altra, Peter Gabriel parlava al pubblico ma non si riusciva a sentire nulla. Quando cantava e la band suonava, era praticamente solo un gran caos. L’ho visto anche alla Wembley Arena ma, quella volta, ero molto vicino al palco e potevo sentire chiaramente. Comunque ho avuto bruttissime esperienze in alcune location e questo ha rovinato il momento. A volte, il pubblico è così caotico che non ti permette di sentire. Nel 1987, sempre al concerto di Peter Gabriel a Earl’s Court, per il brano “Don’t give up”, è salita sul palco (one time only), come special guest, Kate Bush. Tutti si sono alzati in piedi e hanno iniziato ad urlare fortissimo. Così, Kate Bush era lì a cantare e nessuno ha sentito nulla. Non sono riuscito a sentire una sola nota, proprio perché il pubblico era come impazzito. E c’è un’altra cosa interessante. Due anni fa a Londra, i King Crimson hanno suonato al Palladium Theater. E’ stato un concerto davvero molto bello. Alla fine, sono tornato nel backstage dove c’era la mia ragazza. Accanto alla porta, c’era questa signora che, rivolgendosi a lei, le disse: “Oh. Tu sei la ragazza di Gavin. Devi essere molto orgogliosa di lui. E’ stato fantastico, vero?” . Successivamente, ho realizzato che si trattava di Kate Bush. E’ davvero molto diversa oggi. Poi, l’ho riconosciuta e così ho detto: “Wow. Era Kate Bush. E’ stata così gentile”. E’ stato un momento davvero speciale incontrarla e poterle parlare. Non era sicuramente altezzosa.
Q.: Dal punto di vista artistico, tu sei una persona molto generosa. Non sei geloso dei tuoi “trucchi” e, infatti, ci sono moltissimi video in cui spieghi in modo approfondito il modo in cui suoni e condividi la tua esperienza. Non tutti gli artisti lo fanno. Quale consiglio daresti alle nuove generazioni?
G.H.: Beh, è una domanda davvero complicata. Solitamente dico questo: “Guardate. Lavorate sul tempo e sul suono. Se avete un buon suono e buon tempo tutto il resto arriverà e le persone vorranno lavorare con voi. Se volete diventare batteristi solisti e volete suonare molto velocemente e cercare di stupire le persone su YouTube mostrando semplicemente quanto siete veloci, beh, arriverà presto il momento in cui si presenterà un altro giovane batterista con la metà dei vostri anni che sarà molto più veloce di voi. Sì, io ho scelto la batteria. Volevo diventare musicista professionista e la batteria era lo strumento che più mi rappresentava. Certo, io sto facendo musica. Non sto suonando la batteria come se fosse una gara olimpica. Quindi, cercate di essere musicali, di aver un bel suono e un buon tempo e il mondo si aprirà a voi”.
Q.: Ultima domanda, ma non meno importante. Quando non ti eserciti o non sei coinvolto in uno dei tuoi innumerevoli progetti, che tipo di musica ascolti? Ci sono artisti giovani che ci potresti consigliare?
G.H: Ascolto moltissime cose. Normalmente, mi viene in mente qualcosa e così mi dico: “Oh. Voglio ascoltare Peter Gabriel, o Kate Bush, o David Bowie”. Poi, in altre occasioni, navigo su YouTube e scopro delle cose, alcune buone, altre no. E ho iniziato a scoprire alcuni tipi di musica di cui conosco poco. Come ho detto, quando sono entrato a far parte dei Porcupine Tree non sapevo molto di musica “metal” e Steven Wilson mi ha fatto scoprire una band svedese chiamata Meshuggah. Direi che si potrebbero definire una band “extreme metal”. E, comunque, all’interno del metal ci sono così tanti sottogeneri che non conosco. Ho iniziato ad ascoltare i Meshuggah e ne sono rimasto davvero colpito. Incredibile. C’era della vera bellezza, anche se la loro musica è deliberatamente brutale e aggressiva. Ci sono dei ritmi davvero interessanti, melodie e grandi idee. Mi è davvero piaciuto ascoltarli.
A dire il vero ho un’altra storia da raccontarti. Quando, poco fa ti ho raccontato la storia dell’incontro con Kate Bush, mi è venuta in mente un’altra cosa. Nel 1996 suonavo con Iggy Pop ed eravamo a New York. Dopo il concerto, sono stato il primo a rientrare in camerino. Gli altri membri della band erano tutti dietro di me. Sono entrato e ho visto che c’era una persona. Così ho detto: “Ciao!” E lui mi ha risposto: “Ciao!”. Poi ho pensato: “Non mi piace che ci siano delle persone in camerino quando non ci siamo perché ci sono i nostri vestiti, i nostri effetti personali ecc.” Ero un po’ alterato. Mentre iniziavo a cambiarmi, pensavo: “Che strano. Quel tipo aveva un bell’accento britannico”. Mi sono girato e ho realizzato che si trattava di David Bowie! Mi ero ritrovato in una stanza da solo con David Bowie ed ero davvero scioccato. Sono un grandissimo fan di David Bowie! Milioni di persone avrebbero dato qualsiasi cosa per stare cinque minuti da sole con David Bowie. E lui era lì, semplicemente seduto in camerino. E quando ho realizzato chi fosse, mi sono avvicinato, gli ho parlato e lui mi ha invitato ad andare in un club con Iggy Pop. Così quella sera siamo andati in un club, con David e tutta la band. E’ stato davvero incredibile. Un’altra volta, la prima in cui mi trovavo ai Real World Studios, sono entrato nella cucina (parte della studio) e lì c’era Peter Gabriel. Si gira e mi dice: “Ciao. Io sono Peter”. E io gli ho risposto: “Sì. Lo so”. E lui: “Ti andrebbe una tazza di tè?” E io, a quel punto, gli ho risposto: “Certo. Se tu mi prepari una tazza di tè, sarà certamente la miglior tazza di tè che io abbia mai bevuto!”. E’ stato un altro incredibile momento in cui ho avuto la possibilità di incontrare uno dei miei idoli in una situazione insolita.