Intervista a Francesco Rapaccioli

(Raffaella Mezzanzanica)

Francesco Rapaccioli è un cantante, produttore, arrangiatore e vocal coach nonché collaboratore di diversi artisti sia italiani che stranieri: Eros Ramazzotti, Pooh, J-Ax, Ron, Elio e le Storie Tese, solo per citarne alcuni.

Nel corso degli anni, è stato anche Direttore dei corsi di canto e docente in diverse Accademie a Milano.

Recentemente, è entrato a far parte degli Ambigram, un gruppo “pro-aggressive” – come lo stesso Francesco ama definirli – formatosi grazie all’unione e all’amicizia di musicisti di altissimo livello del panorama musicale: Gigi Cavalli Cocchi (batteria), Beppe Lombardo (chitarre), Max Marchini (basso). Francesco è lead vocalist della band.

Dopo aver parlato degli Ambigram e del loro omonimo album in un recente articolo (https://bit.ly/3CCFPOQ), ho voluto che fosse Francesco a raccontarci non solo della sua carriera musicale e della sua partecipazione a questo progetto, ma anche a dare una sua visione sullo stato della musica – “progressive” e non – in Italia.

D.:  Gli Ambigram sono una band che nasce dall’amicizia dei suoi componenti. Raccontami come vi siete incontrati e come siete arrivati a questa formazione.

F.R.: Il mio primo link con gli Ambigram è rappresentato da Beppe Lombardo che, intorno al 1974/’75, è stato il mio insegnante di chitarra. Io, infatti, nasco chitarrista, non cantante. Ai tempi abitavamo tutti e due a Piacenza. Io, Beppe e Max Marchini siamo tutti originari di questa città. Ormai vivo a Milano da tanti anni, ma le mie origini sono quelle. Qualche anno più tardi – intorno al 1979 – ho conosciuto Max tramite amici comuni nel mondo della musica e lui mi ha coinvolto in una serie di concerti organizzati all’Istituto Tecnico Industriale. Io, poi, sono partito per il militare e ci siamo un po’ persi di vista. Nel frattempo, Beppe è andato in Finlandia dove ha vissuto per tanti anni. Per molto tempo, quindi, non l’ho più visto. All’inizio degli anni 2000, Beppe è rientrato dalla Finlandia e ha contattato Max, avendo già collaborato con lui in precedenza. Cominciano così a buttar giù delle idee coinvolgendo delle persone. Il problema, però, era trovare delle persone che dessero un valore aggiunto ma che non andassero a snaturare l’idea iniziale. Max, tra l’altro, è un melomane incredibile e ha una collezione di album sterminata. Ad un certo punto, riesce ad entrare in contatto con Greg Lake ed inizia con lui una collaborazione. Greg, negli ultimi anni della sua vita, era spessissimo a Piacenza, grazie anche a questa amicizia con Max. Max rileva per l’Italia la Manticore, storica etichetta di Emerson, Lake & Palmer. Circa quattro anni fa, Max mi chiama dicendomi un disco già pronto e registrato da questo cantante molto bravo, Marco Rancati.Tuttavia, per una serie di incomprensioni tra Marco e il resto della band, stavano pensando di fare un cambiamento. Quasi contestualmente, grazie all’amicizia con Greg Lake, Max conosce Gigi Cavalli Cocchi che, tra le altre cose, è stato il batterista dei Mangala Vallis – gruppo il cui frontman era Bernardo Lanzetti – e gli parla dell’album, coinvolgendolo così nel progetto. Si crea, quindi, un trio con le aggiunte che già c’erano: Max Repetti alla tastiere, Annie Barbazza che partecipa anche alla scrittura e fa delle seconde voci. Max mi chiama parlandomi del progetto. Io lo ringrazio per la proposta, ma chiaramente gli dico che vorrei prima capire se i pezzi mi piacciono. Da ultimo, bisogna capire se i pezzi cantati da me piacciono a Max e agli altri. Qualche mese dopo, Max mi confessò di essere assolutamente convinto del fatto che io avrei detto di no. Ascolto i brani e scopro che mi piacciono molto. Da un lato, ero un po’ imbarazzato di entrare in campo al posto di un artista che stimavo moltissimo (Marco Rancati), dall’altro, mi sono detto che non avrei semplicemente potuto mettere il mio suono sopra il cantato di Marco. Solitamente, infatti, ho il ruolo di “produttore artistico” e detesto i cantanti che fanno virtuosismi vocali o abbellimenti che non sono rispettosi della composizione. Io, pur rimanendo rispettoso della composizione, vorrei marchiare i brani con il mio stile. Max e gli altri hanno accettato la mia proposta. Ho iniziato registrando un paio di pezzi e da lì poi è partito tutto. Strada facendo, ho anche dato dei suggerimenti, ad esempio proponendo l’idea di coinvolgere Paola (Folli) nel brano “Sailing Home”. L’album è stato mixato da Alberto Callegari e da me e io stesso ho curato anche il mastering, coinvolgendo Tommy Bianchi, figlio di Foffo Bianchi, storico fonico di Elio e le Storie Tese e produttore di Baglioni, Zero, Dalla e tanti altri.

D.: Parliamo della scelta del nome della band. “Ambigram” è un concetto davvero interessante. Come è andata?

F.R.: La scelta del nome è stata una proposta di Gigi Cavalli Cocchi. Inizialmente, non era piaciuta. Quando sono arrivato, a me è piaciuto moltissimo e, soprattutto, mi è piaciuto moltissimo il logo. Purtroppo, però,  questa cosa non è stata capita. Avevamo chiesto di fare uscire il vinile con la scritta “Ambigram” sopra, perché a quel punto si sarebbe potuto vedere il logo che gira su stesso e ritorna esattamente uguale. Speriamo di poterlo fare presto. Non saprei dire il motivo esatto per cui a Gigi sia venuto in mente di proporre questo nome. Sicuramente, però, non è legato agli “Illuminati”, cioè al fatto che “Illuminati” esista anche come ambigramma.

D.: Per voi il “progressive” non è un genere musicale, ma una vera e propria “attitudine”. Mi spieghi meglio questa idea?

F.R.: E’ un po’ difficile da spiegare, soprattutto in un mondo musicale “iper-catalogato”, “iper-classificato” come quello in cui viviamo. Dagli anni ’90 in poi, esistono ormai solo “artisti di genere”, mentre negli anni in cui il “prog” è nato, la definizione stessa di “progressive” non esisteva. Era l’avanguardia. Fondamentalmente c’erano due scuole di pensiero rappresentate da grandissimi musicisti: da un lato, il “progressive europeo”, una sorta di ibrido tra un mondo classico e un mondo folk. Dall’altra parte, oltreoceano, tutto quello che è ibridazione tra jazz rock e fusion. In tutto questo, ad esempio, “Brother to Brother” , l’album di Gino Vannelli, non è considerato un album prog, ma potrebbe essere definito tale se Gino Vannelli non fosse stato canadese ma fosse stato gallese. Si tratta di “decodificare” i riferimenti musicali. Secondo me, il prog è l’abilità di fare quello che nei primi anni 2000 venne definito “crossover”. Quello che caratterizza il prog, in linea generale, è anche una certa competenza tecnica. Ad esempio, “Buddha Bar” è musica d’ambiente, dove si mettono insieme cose tra loro diverse, ma sicuramente più alla portata di tutti. Fare altri tipi di musica è sicuramente più complesso. C’è una serie di video intitolata “Everything is a remix” che chiarisce questo concetto. Mentre noi abbiamo associato alla parola “remix” il fatto di remixare semplicemente un audio, questo accade, in realtà, nella cinematografia, nella narrativa, nello styling ecc. Insomma, nessuno si sta inventando veramente qualcosa in nessun campo. Tuttavia, quando riesci a fare qualcosa che non è così marcatamente riconducibile a qualcos’altro, allora sei in presenza di un “progresso”.

D.: Il vostro primo, omonimo album, pubblicato lo scorso aprile, il mare è la fonte di ispirazione di molte tracce. Possiamo, quindi, parlare di “concept album” – tema molto caro agli artisti progressive? Mi spieghi anche il perché di questa scelta? Che cosa ti/vi affascina nel mare?

F.R.: Su questo non posso darti una risposta in quanto, come ti dicevo, non ho partecipato alla fase di composizione. Sicuramente c’era l’idea di non fare dei testi sociali o d’amore.

D.: L’album è uscito su Ma.Ra.Cash Records, un’etichetta indipendente focalizzata su artisti prog. Come è nata questa collaborazione?

F.R.: Questa collaborazione è nata in quanto Max, con le sue due etichette – Manticore e Dark Companion – veniva distribuito da Ma.Ra.Cash. Per questo motivo, si è creato una sorta di preaccordo su questo album e quando lo abbiamo completato l’etichetta si è occupata della distribuzione del progetto su cui avevamo lavorato noi quattro.

D.: Recentemente vi siete esibiti al Legend Club di Milano e avete portato sul palco con voi alcuni dei vostri “collaboratori” ma, soprattutto, alcuni dei vostri amici. Come è andata?

F.R.: Si è trattato di un concerto “breve, ma intenso”. Il mio più grande timore era sui testi, in quanto sono estremamente poetici ma molto difficili per la pronuncia. Durante la scrittura non si è pensato alle difficoltà per il cantante. Questo aspetto, tuttavia, è sempre stato un po’ un classico della musica prog. E’ anche vero che i cantanti appartenenti a questo genere sono sempre stati un po’ più “contenuti”. Abbiamo deciso di non presentare tutto l’album perché, per prima cosa, era molto difficile rendere il tutto in versione “power trio + voce”. Utilizzando questa modalità di presentazione, per il cantante diventa ancora più difficile, perché quello su cui si può appoggiare diventa più vuoto. Abbiamo chiamato Annie Barbazza a fare l’apertura insieme ai Lalades e abbiamo coinvolto Paola Folli che, però, non ha fatto il brano dell’album (Sailing Home) in quanto impossibile da proporre senza il supporto di un tastierista. Abbiamo, quindi, proposto insieme “Come Together”. A noi si è aggiunto Fabio Treves. In linea generale, ci siamo divertiti tantissimo e ci stiamo organizzando per fare delle altre cose e proporre gli altri due pezzi rivisitati.

D.: In Italia c’è una grande tradizione di musica progressive, ma come sta il prog oggi e come è cambiato nel corso del tempo?

F.R.: Forse la persona più adatta a darti questo tipo di risposta sarebbe Gigi Cavalli Cocchi sia perché ha militato in diverse formazioni prog, sia perché ha organizzato festival e ha, quindi, un visione migliore. Personalmente penso che nel mondo prog non ci siano stati ingressi in campo negli ultimi dieci anni che possono aver catturato l’attenzione. Mentre in una parte di mondo “indie” e, se vuoi in una certa parte del mondo “trap”, per una casa discografica costruire l’emulo di qualcosa che già esiste è molto semplice e non necessita di tempi lunghi o di grossi investimenti, fare anche una semplice emulazione ai Maneskin, ad esempio, è difficilissimo. Loro suonano insieme già da quattro anni e quindi si conoscono molto bene. Questa cosa ha comunque un effetto positivo. Vedo, infatti, molti ragazzi che stanno iniziando a imbracciare la chitarra. Quel suono un po’ grezzo, un po’ energico rappresenta qualcosa di totalmente nuovo per loro. Gli Who, ad esempio, hanno fatto prima “My Generation” e solo dopo “Tommy” e “Quadrophenia”. Nel frattempo hanno sviluppato un mondo. In parte, i Greta Van Fleet sono andati in quella direzione. Viviamo in un tempo in cui stanno tornando in auge tutta una serie di cose – pensiamo, ad esempio, a Bruno Mars e Anderson .Paak. Loro rappresentano davvero una bellissima riscoperta. Punto su un’ondata che potrebbe arrivare tra tre/quattro/cinque anni, al netto di quello che sta succedendo nel mondo. Diciamo che il mio è, soprattutto, un auspicio. Credo che, a quel punto, ci sarà bisogno di chi come noi possa dare un valore aggiunto che esca dal tecnicismo che, ad esempio, nel mondo del rock appartiene al metal. Il chitarrista dei Maneskin, dal punto di vista di un ragazzo che può avere quattro/cinque anni meno di lui, sta a Pete Townshend, cioè al chitarrista non virtuoso che, però, sostiene il tutto armonicamente in modo corretto. Mi stupisce che il paragone non sia ancora stato fatto perché è quella la formazione. Non è Led Zeppelin, dove c’è un chitarrista fortemente virtuoso, con un’esperienza spaventosa alle spalle. Pete Townshend è un musicista stratosferico ma, nella band, quello che faceva era il lavoro di “sostegno”. Quindi, dov’è la differenza rispetto ai Maneskin?

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