I Genesis, “The Last Domino? Tour 2020”, il senso delle cose…

(Andrea Romeo – 7 marzo 2020)

Iniziamo subito con il dire una cosa e cioè che, nell’opinione di chi scrive, i Genesis, salvo rarissimi istanti, non sono mai stati un “gruppo”, nel senso più stretto, direi quasi semantico, del termine.

I Genesis sono stati, nei cinquanta e più anni della loro carriera, un insieme di individualità che, solamente agli inizi e per pochi anni, spinte da una giovanile sete di ricerca musicale, hanno forse realmente condiviso una visione musicale in modo profondo ed intimo; il dopo, e per dopo intendo dal 1973/74 in poi, è stato altro.

Per capire il perché io non ritenga affatto entusiasmante, come invece capita di leggere da qualche giorno nei commenti reperibili in rete, questa reunion, e premettendo che conosco, ascolto ed amo questa band sin da quando l’ho conosciuta, nel lontano 1975, queste individualità vanno analizzate una per una e non solo musicalmente, tenendo presente che, in buona parte delle interviste rilasciate negli anni, l’elemento unificante è stata, per quasi tutti, il sottile e velato timore di essere giudicati.

Tony Banks non è certo un soggetto facile, non è mai stato una persona accomodante, nè un musicista che abbia amato, ed ami, condividere o interfacciarsi in modo sereno e disponibile con altri musicisti: più volte, nelle sue dichiarazioni, è apparso ombroso, ipercritico, fortemente centrato sul proprio ruolo e sul proprio lavoro, ma soprattutto sempre preoccupato di derubricare, a vario titolo ed in vario modo, quello che per comodità chiameremo “Periodo Gabriel” come, tutto sommato, un periodo di impeto giovanile, stimolante certo, ma da non considerare più di tanto, rispetto agli sviluppi successivi. Da lui, la musica da Duke in poi, è stata sempre definita come “più interessante”…

Mike Rutherford è, o forse meglio dire è stato, colui che, il senso del “gruppo”, almeno inizialmente lo ha coltivato di più e questo perché non è mai stato conflittuale con nessuno dei suoi partner: ha condiviso l’amore per la dodici corde con Anthony Phillips, il primo chitarrista e cofondatore della band, si è dedicato senza problemi a chitarra di accompagnamento, ma soprattutto basso, e con eccellenti risultati, dopo l’arrivo di Steve Hackett, cosa che ha fatto anche dopo l’uscita di quest’ultimo anche se, da un certo punto in poi, ha palesato i suoi limiti solisti; è sempre stato un mediatore, per lo meno finchè non è rimasto, in un certo senso, coinvolto nell’approccio banksiano. Sintomatica, in questo senso, una recente frase: “Se Steve voleva continuare a suonare quei brani, perché non è rimasto nella band?”.

Phil Collins, e questo potrà forse deludere i suoi fans musicisti, ha sempre dichiarato di considerare la sua esperienza con la band come un lavoro, nulla di più, nulla di meno; se si vanno a leggere interviste, biografie, dichiarazioni, l’aspetto artistico, interiore, emotivo di ciò che la band proponeva, appare solo, e molto di sfuggita, in qualche frase detta nei primissimi anni ’70.
Tutto ciò che gli appassionati hanno sognato, ascoltando i loro lavori della prima metà degli anni ’70 lo toccava molto, molto relativamente: socialmente e culturalmente apparteneva ad un altro mondo, rispetto ai compagni, e non ne ha mai fatto mistero, e questo essere più diretto, pratico e sbrigativo gli ha permesso di prendere le redini della band dal 1975 in poi.

Steve Hackett è stato, dall’inizio alla fine della sua esperienza con i Genesis, una sorta di corpo estraneo, e questo per vari motivi: è subentrato ad un membro, Phillips, che con gli altri era cresciuto, e questo lo poneva in una posizione difficile, in un ambito in cui gli equilibri personali e caratteriali erano delicatissimi. La sua fortuna è stata, paradossalmente, anche la sua sfortuna: si è integrato subito con gli altri, perché era una persona che non amava apparire ma, musicalmente, era assolutamente al loro livello, ha caratterizzato fortemente il suono della band senza mai doversi imporre, per cui era, artisticamente, inattaccabile.
Ma, se Collins proveniva da un mondo differente, e quindi era visto come un’opportunità, appartenente ad un terreno “esterno”, Hackett, meticoloso, acculturato, musicalmente sintonizzato era, di fatto, una sorta di concorrente.

Peter Gabriel è stato, per i Genesis, l’innesco, la miccia, ma anche l’esplosivo che, ad un certo punto, si è defilato per non deflagrare. Partner strettissimo di Banks, nei primi anni, si è relazionato alla pari con lui, ma lo ha via via scavalcato: già dalle registrazioni di Selling England by the Pound, fra i due, la frattura si è allargata, divenendo un solco, irrecuperabile, nel periodo di The Lamb. Il suo abbandono è stato vissuto in vari modi dai membri della band: un trauma, ma anche una liberazione, per Banks, un dispiacere per Rutherford, un colpo duro, ed importante, per Hackett, un caso della vita, spiacevole, ma “cose che capitano”, per Collins. Da lì in poi ha vissuto un progressivo e voluto allontanamento da quegli anni, cercando di distaccarsene quanto più possibile per non rischiare (almeno nel suo pensiero) di rimanere “Il cantante dei Genesis, quello che si vestiva strano e raccontava storie”.

Cinque storie, cinque persone, cinque caratteri decisamente complicati, a tratti davvero difficili da comprendere: quattro di loro in perenne fuga dal loro passato, con il quale non hanno mai accettato di pacificarsi, mentre solo uno di loro, Hackett, ad un certo punto ha fatto il percorso inverso, andandolo a recuperare perché, tutto sommato, faceva parte di sé.

Questo, più o meno, lo schema in cui inquadrare questo “The Last Domino? Tour 2020”, che li porterà a suonare, per ora, un pugno di date in Inghilterra a fine anno.
A questo punto, e con queste premesse, occorre valutare in modo neutro, non certo da fan, il senso di questa operazione.

Arrivati intorno ai settant’anni si dovrebbe, in teoria, essere abbastanza maturi e pacificati, non solo come artisti ma soprattutto come uomini e quindi essere in grado di capire tutta una serie di situazioni; ma non è questo, purtroppo, il caso.

Gabriel, peraltro in palese stasi artistica da parecchio tempo, si è defilato per l’ennesima volta perché, malgrado una carriera lunga, di successo, nonostante il fatto venga considerato uno degli artisti più importanti, innovativi ed influenti di sempre, ancora oggi rifugge quella parte di sé: di fatto “non li vuole”.
Hackett ha, da tempo, offerto la propria disponibilità a fare qualcosa insieme, anche perché sta riproponendo dal vivo, e con grande successo, tutti i lavori della band ai quali ha partecipato, da Nursery Crime a Seconds Out ma, pare, non venga mai neppure interpellato in merito: di fatto “non lo vogliono”.
Banks, dal suo eremo artistico pluriennale, Collins, affaticato e stanco per i recenti problemi di salutee Rutherford, cui Mike and The Mechanics hanno regalato davvero poco, artisticamente, si limitano a citare generiche “difficoltà nel riuscire a conciliare le necessità di tutti”, palesando di fatto l’idea che la reunion a tre sia più semplice e più praticabile, in sintesi più “comoda”.

I know what I like, and I like what I know…”… lo dicevano proprio loro, ed in tempi davvero non sospetti…

Ostinazione, rigidità, muri invisibili, rivalità striscianti e mai sopite, uno snobismo di fondo che deriva, forse ed in parte, da un’educazione rigida e mai del tutto metabolizzata; neppure l’idea, certamente romantica, di fare una sorta di regalo a generazioni di appassionati che li hanno seguiti, insieme o singolarmente, per cinque decadi, riesce a smuovere per lo meno quattro quinti dei Genesis.

Giusto per “giocare”, facciamo allora un’ipotesi: reunion a cinque, con Nicholas Collins alla batteria, a causa dei noti problemi del padre, e magari il buon Chester Thompson a dare supporto, due brani, a piacere, da Trespass a Duke, con in aggiunta Mama e magari la suite di Domino, quindi una scaletta di una ventina di brani in cui Gabriel e Collins, possano dividersi senza sforzi le parti vocali e poi, esageriamo pure, perchè in fondo non costa nulla, una ospitata a sorpresa di Anthony Phillips alle chitarre, magari in una o due tra le location più prestigiose.

Sarebbe poi, davvero, così complicato?

Personaggi definibili come “ostici”, e caratterialmente non semplici, come ad esempio Robert Fripp, Roger Waters, Sting si sono, nel tempo, riavvicinati alle loro origini: Fripp ha ripreso a portare in giro i primi album dei King Crimson, Waters è andato a ritroso, partendo da The Wall, Sting suona da anni brani dei Police… nessuno di loro viene certamente considerato, dagli appassionati, un vecchio nostalgico, ed i musicisti coinvolti hanno capito il senso di questi percorsi, e vi collaborano al meglio.

In questo “The Last Domino? Tour 2020”, con buona probabilità, si riascolteranno Invisible Touch, Abacab, Tonight Tonight Tonight, Land of Confusion o That’s All, diversi brani del periodo 1980/1990, magari un medley con minimi accenni ai “classici” e, forse, il recupero di uno o due brani del periodo 1976/1980: insomma, grossomodo, la scaletta proposta al Circo Massimo, a Roma, nel 2007.

E qui, parafrasando Antonio Lubrano, “la domanda sorge spontanea”: ha davvero senso un’operazione di questo genere? E se lo ha, qual è?

Tra il chiudere davvero in bellezza (come hanno fatto i Led Zeppelin, con il loro concerto “one shot” alla 02 Arena di Londra, nel 2007, 18.000 posti, richieste di biglietti per una ventina di milioni… di posti, in ventiquattr’ore, o i Police, con un Reunion Tour 2007/2008 che ha infilato un anno di “sold out”) ed il mettere un’altra, l’ennesima, pezza ad una carriera che non è più tale da anni, beh, la differenza è davvero evidente, ed a mio parere stridente.

Poi, intendiamoci, per molti sarà un “sogno”, un “momento magico”, un “fatto memorabile”, perché certo, nella vita c’è bisogno di entusiasmarsi; ma, così facendo, si corre il rischio di giocare sempre al ribasso, di ragionare nei termini, riduttivi, del “piuttosto che niente, meglio piuttosto”.

Grazie, ma anche no.

Personalmente, da artisti di questo livello, pretendo un finale davvero con il botto, un finale in cui, forse per la prima volta nella loro vita, suonino per il pubblico e non per sé stessi (cosa che in carriera è invece giusto che sia, intendiamoci, se si vuole mantenere una coerenza personale).

Probabilmente confondere gli artisti con gli uomini, conduce a “misunderstanding” di questo tipo per cui, talvolta, ci si illude che, chi ha sollecitato sentimenti, sensazioni, chi ha stimolato visioni e sogni sia, in quanto offerente di tali emozioni, ancora coinvolto da esse: errore imperdonabile, da inguaribili romantici, e da non fare mai.

La poesia, in senso ampio, va cercata dentro sé stessi, senza considerare, se possibile, chi ce ne propone i versi.

Chi spenderà denaro (non poco, a leggere le cifre) per assistere ad una data di questa reunion sarà, certamente ed auspicabilmente, ci mancherebbe altro, soddisfatto: lo sarà però a metà, ed inconsapevolmente, perché ignaro di quello che avrebbe potuto essere, ed invece non è stato.

Un’occasione sprecata…

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