High Tide – Sea Shanties

(Andrea Romeo)

Wilson Neate, giornalista di Allmusic, descrisse la band con queste parole: “High Tide had the muscularity of a no-nonsense proto-metal band, but they also ventured into prog territory with changing time signatures and tempos, soft-hard dynamics, multi-part arrangements, and even some ornate faux-baroque interludes“.

Ed in effetti gli High Tide, nati a Northampton nel 1969 grazie all’incontro tra Tony Hill, voce, chitarra acustica e tastiere, proveniente dai Misunderstood, Simon House, violino e tastiere, Pete Pavli, bassista cipriota trapiantato a Londra e Roger Hadden, batteria, sono stati una sorta di unicum, all’interno del vastissimo panorama musicale che ha caratterizzato l’Inghilterra negli anni ’60 e ’70, in parte per il fatto di essere stata una delle prime band ad utilizzare significativamente il violino elettrico, per cui Simon House divenne la vera e propria controparte per la chitarra di Hill, ma soprattutto per un sound complesso, articolato, a tratti quasi aggrovigliato, un mix di hard rock, psichedelia, blues, folk e fusion che più di un critico arrivò a considerare come una delle primissime espressioni di quello che, più o meno una quindicina di anni dopo, sarebbe stato definito progressive-metal.

Sea Shanties esce nel 1969, raccoglie consensi tra il pubblico, il plauso della critica e, fattore non secondario, vende anche abbastanza bene, quanto basta all’etichetta per autorizzare la band ad iniziare a lavorare sull’album successivo, che sarà l’omonimo High Tide, uscirà l’anno dopo, ma suonerà in maniera sensibilmente differente rispetto al debutto: un concept album meno duro, più orientato al progressive, che vedrà un maggiore utilizzo delle tastiere, sicuramente più coerente ma forse meno creativo.

Le tracce contenute in questo primo lavoro sono sei, ed in tutte si percepisce chiaramente ciò che Neate aveva acutamente osservato: “…High Tide weren’t a power trio, though, and it was the interplay of Hill’s guitar with Simon House’s violin that created the band’s unique signature. Showing that rock violin needn’t be a marginal adornment, House whips up an aggressive edge that rivals the guitar…

Tutto ciò appare evidente già dal brano di apertura, Futilist’s Lament: apre una chitarra durissima, che spalanca le porte ad un corposo acid-rock-blues a tinte dark, dall’eco morrisoniana, in cui il basso di Pavli disegna linee articolate che si affiancano, ed a tratti si contrappongono quasi, a quelle di chitarra e violino: già da questo brano appare chiaro il senso di complessità cui si faceva cenno, e che si evince proprio dalle tessiture melodiche che trovano sempre una sorprendente capacità di connettersi.

Con la seconda traccia, la torrenziale Death Warmed Up, completamente strumentale, l’attitudine degli High Tide si mostra in maniera ancora più evidente: chitarra e violino si sfidano, in velocità ed in virtuosismo, ma questa sorta di competizione non risulta affatto noiosa o fine a sé stessa anzi, ha il potere di attirare l’ascoltatore che deve davvero impegnarsi per riuscire a seguire le evoluzioni parallele di una chitarra torrenziale, chiaramente hard, distorta e ruvida, e di un violino dal forte imprinting psichedelico, a tratti orientaleggiante, ma sempre impetuoso.

Nove minuti così debordanti necessitano davvero di una pausa, ed ecco allora che il quartetto cambia totalmente proposta; Pushed, But Not Forgotten è, contrariamente al precedente, un brano totalmente melodico, in un certo senso lisergico e dall’andamento quasi folk: chitarra arpeggiata, delicatissima e dal timbro pieno e rotondo all’inizio, poi più acida, ma sempre molto controllata, violino che semplifica molto le tessiture, ora più lineari ed ingentilite rispetto al furore espresso precedentemente, per un pezzo che, nella struttura armonica, anticipa l’approccio prog del secondo lavoro.

Walking Down Their Outlook, per certi versi, richiama certe cose dei Doors, soprattutto quelle più classicheggianti e questo almeno fin quando la vena hard non riemerge, di tanto in tanto, a rammentare la matrice più dura e spigolosa degli High Tide, il tutto in un’alternanza che mantiene sempre il brano sul chi vive, perché non è mai facile intuire la svolta successiva stante il fatto che il quartetto non offre mai dei precisi punti di riferimento, rinunciando quindi allo schema-canzone più classico ed orientandosi verso una sorta di anarchia creativa dagli esiti imprevedibili.

Interessante notare che questa complessità, se si escludono la seconda e la quinta traccia, rimane sempre condensata in brani che non superano i cinque minuti.

La quinta traccia è, appunto, Missing Out, altra piccola maratona di british-rock blues virata in salsa hard ed in cui la variabile definitiva, rispetto a band analoghe, è proprio il violino che, come detto precedentemente, non è mai un elemento di puro abbellimento ma parte integrante, ed originale, del tessuto sonoro.

L’album si chiude con Nowhere, cinque minuti e poco più di pura poesia sonora e testuale, aperta da un chitarra acida che, immediatamente affiancata dal violino, inizia a creare un travolgente e continuo arabesco sonoro: anche in questo brano i cambi di ritmo si susseguono in modo apparentemente casuale, creando una dinamica schizoide, priva di una apparente logica eppure assolutamente coerente, perché il brano “gira”, eccome, e la band non perde mai la lucidità necessaria per condurlo a termine.

In sole sei tracce gli High Tide sono riusciti a condensare una quantità enorme di stimoli sonori, un’espressività a tratti persino esagerata, ma lo hanno fatto con un rigore, una capacità tecnica, ed una coerenza stilistica tanto evidenti quanto non comuni, nonostante il fatto che il periodo in cui si affacciarono sul mercato musicale sia stato, senza alcun dubbio, uno dei più fecondi e ricchi di proposte.

Dopo il secondo album, uscito nel 1970, ne realizzarono un terzo, Precious Cargo, decisamente più psichedelico e meno hard, terminato nel medesimo anno, ma pubblicato soltanto vent’anni dopo, dopodichè si sciolsero fondamentalmente a causa della depressione, dovuta all’abuso di acidi, che coinvolse il loro batterista.

Hill intraprenderà una lunga ma discontinua carriera solista così come Pavli, che si dedicherà ad estemporanee collaborazioni, mentre ancora più rarefatto sarà il percorso artistico di Hadden; solamente Simon House avrà un prosieguo di notevole rilievo, associando il proprio nome, tra i molti, a Third Ear Band, Hawkwind, Robert Calvert, David Bowie, Japan, David Sylvian, Thomas Dolby, Mike Oldfield, Nik Turner, Judy Dyble, Nektar ed Alan Davey; ma il loro posto, nella storia del rock, gli High Tide se l’erano già ampiamente guadagnato.

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