Grand Funk Railroad – Live Album

(Andrea Romeo)

Il senso della loro esistenza si può individuare in una frase, che è divenuta anche il titolo di un brano, e di un album, e che definì in maniera risolutiva il loro status: We’re an American Band; e difatti l’attitudine ed il sound dei Gran Funk Railroad, nome nato da un gioco di parole sulla Grand Trunk Railroad, una linea ferroviaria che attraversava Flint, loro città natale, sono stati profondamente americani, perché nella tradizione a stelle e strisce hanno colto e rielaborato le loro influenze musicali.

Originari come detto di Flint, situata a nord-ovest di Detroit, nello Stato del Michigan, Don Brewer, batteria e voce, Mel Schacher, basso e Mark Fredrick Farner, chitarra, voce e tastiere, vennero notati dal produttore, Terry Knight, ex d.j. radiofonico di una radio di Detroit presso la quale avevano portato un loro demo; era il 1969, ed il passo verso la firma con la Capitol Records, e la realizzazione del primo album dal titolo On Time, nell’agosto dello stesso anno, fu brevissimo: il successo fu clamoroso e certificato dalle oltre 500.000 copie vendute che, per una band praticamente sconosciuta, era un biglietto da visita assolutamente incredibile.

Da non sottovalutare il fatto che Knight mise in piedi una campagna promozionale senza precedenti nella storia del music-business statunitense, tappezzando Times Square a New York con enormi manifesti che raffiguravano il trio; quanto al contratto, solo con il tempo la band si renderà conto dei termini capestro che vi erano contenuti, il che condusse le parti a lunghi e fastidiosi strascichi legali.

Il bello però doveva ancora arrivare perché con il secondo lavoro, Grand Funk, pubblicato solo quattro mesi dopo, le vendite raddoppiarono e con il terzo, Closer to Home, uscito a Giugno dell’anno successivo, divennero quattro volte tanto: una scalata impressionante, rapida ed inattesa, che nel giro di un anno fece del power trio assolute superstar del rock made in Usa; dal 1969 al 1974 vendettero oltre venti milioni di dischi, inanellando una straordinaria raffica di successi, e tra di essi spicca, né poteva essere diversamente, il quarto album, titolo semplice ma iconico: Live Album.

Non poteva andare in altro modo perché la dimensione di questa band era quella del palcoscenico, e questo perché in quel contesto i loro brani, già energici e grintosi nelle versioni in studio, si tramutavano in vere e proprie cavalcate sfrenate.

I luoghi in cui espressero questa vitalità furono il Jacksonville Coliseum, 23 giugno 1970, il West Palm Beach Civic Auditorium, 24 giugno 1970 e l’Orlando Sports Center, 25 giugno 1970: tre giorni, tre venues in Florida che li videro protagonisti e da cui furono tratte le registrazioni che composero il primo album dal vivo, summa di due anni di lavoro in cui, a rotta di collo, si fiondarono nel mondo del music business e conquistarono senza fare sconti il loro posto al sole.

Arrivati dall’area di Detroit in cui, grazie alla presenza della Tamla Motown avevano assorbito black music in dosi massicce, la mutarono in un hard rock sanguigno e viscerale, ottusamente sottovalutato dagli appassionati che tenderanno a preferire la seconda parte della loro carriera, più commerciale e di certo più opaca.

Dieci i brani in scaletta che vanno dall’apertura tellurica di Are You Ready, letteralmente sommersa dall’entusiasmo del pubblico, fino alla chiusura con i dodici e passa minuti di una scatenata Into the Sun suonata in una bolgia infernale: a celebrare quest’orgia di decibel Farner, voce penetrante, dall’ispirazione soul, ed una chitarra praticamente inarrestabile ma capace di ritagliarsi qualche momento di ispirata quiete, Schacher, basso distorto, suono davvero “grosso”, linee quadrate e prive di pause ed infine Brewer, batterista certamente essenziale, tecnico quanto basta ma soprattutto in grado di mantenere, anche fisicamente, ritmi vertiginosi.

Si prosegue con un’allucinata e psichedelica Paranoid, procedendo verso una stravolta e spossante In Need in cui il Fender Jazz Bass di Schacher è un caterpillar sonoro, un treno in corsa senza fermate intermedie; arriva, finalmente, il blues “sporco” di Heartbreaker grazie al quale tirare il fiato prima di rituffarsi, dopo un finale travolgente, in Inside Looking Out, riuscitissima cover del brano degli Animals, cadenzato e ruvido, ed arrivare a Words of Wisdom, accorata invocazione del cantante contro lo spaccio di droghe tra i ragazzi accorsi allo show: “Ah… brothers and sisters, there are people out there that look just like you or maybe ah… your brother ah… but they’re not. And, when they hand you something, don’t take it… don’t take it, okay?

Quanto mai opportuna arriva Mean Mistreater, unico altro momento tranquillo dell’intero show (escluso il break centrale), affidato al piano elettrico ed alle voci, poi si ricomincia la corsa con la batteria che introduce Mark Says Alright subito seguita da un ostinato di basso saturo e distorto e da una chitarra che ricorda vagamente certi passaggi post-punk dei Television; questo per circa due minuti e mezzo, dopodichè i tre si scatenano e questo strumentale assume la dimensione di una vera e propria cavalcata metal, inarrestabile ed incontenibile; a precedere il gran finale la tiratissima T.N.U.C., sorta di boogie-funk in chiave hard rock che non fa prigionieri specie quando Brewer ed i suoi tamburi dialogano con il pubblico per tutto il finale del brano.

La si potrebbe definire la band di rhythm & blues più pesante di tutti i tempi e non si andrebbe molto lontano dalla verità perché, malgrado un impatto sonoro devastante, le influenze della musica black ci sono tutte, e sono percepibili soprattutto nel groove e nell’attitudine che i tre riescono a trasmettere; certo, i brani sono dilatati, sporcati ed assai più contorti rispetto agli originali, ma questo album sincero, spontaneo, con tutte le sue imperfezioni ed una registrazione tutto sommato approssimativa, quasi fosse un bootleg, rende esattamente l’idea di quali fossero le sensazioni, ma soprattutto il feeling che univa i Grand Funk Railroad ed il pubblico, durante i loro concerti.

(Capitol Records, 1970)

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