Graham Parker And The Rumour – “The Parkerilla”

Il pub rock era un peccato originale in giro dalla fine degli anni sessanta, un mischiaticcio inglese di Rock’n’roll, folk, glam, rhythm and blues, beat, soul e Dio sa cos’altro.
Una trasgressione musicale fatta da gente della working class più o meno umiliata dalla vita, persone piene di passione e gonfie di birra, qualche abilità con gli strumenti e la colpevolezza di voler essere identici ai propri idoli.
Serviva per essere protagonisti la perfezione al contrario, la volontà di esibirsi in topaie scalcinate resistendo ai tanti sforzi della giornata lavorativa, la capacità di trasformarsi in predoni notturni per un pubblico che voleva solo bere fino a morire. L’indomani, con un mal di testa frastornante e graffi dappertutto, ognuno a timbrare il cartellino delle proprie occupazioni: panettieri, imbianchini, idraulici, impiegati, minatori, più altre mille attività piene di mistero.

Le arene nei primi anni settanta sono tutte per il Glam Rock, per il fru fru frusciante delle ciprie e dei boa di struzzo, per gli abiti androgini e stravaganti; per le lacche che trasformano i capelli in effeminati elmi da finto combattimento.

Graham Parker è un benzinaio, un rocker che canta tra le pompe di un distributore; uno che tiene sempre indosso t-shirt di Elvis Presley, Ray Charles Fats Domino o Aretha Frank: un carbonaro che respira gas di scarico e vapori assortiti, preso di mira dai clienti perché sempre pronto a fare sciocchezze con gli importi, rissoso quando è chiamato in causa.
Ma sera dopo sera Graham si trasforma in un vampiro da balera, porta avanti la sua crociata Rock’n’roll sulle assi di una birreria fuori mano, nessuno che lo aspetti contento, per terra una caterva di bicchieri rotti, qualcuno che si prende a botte, sangue, sudore, tanta miseria.
Con lui una band pronta a suonare di tutto con il nome The Rumour, che agisce per frammenti, brava a mescolare il rockabilly con il northern soul, il calypso con qualche altro genere inesistente.
La sezione fiati (Rumour Brass) è la sciccheria, quella posta in ombra sul fianco destro dello schieramento, quella che si prende le zampate nel culo dagli avventori, gli sputazzamenti, le mortificazioni sulle mamme e le sorelle.
A tenere in piedi la baracca, solo e soltanto quel baluardo insormontabile chiamato cuore, solo la tacita pietà legata al movimento nobile di quell’organo supremo.

Di colpo a metà anni settanta il bubblegum pop di Marc Bolan, di Gary Glitter, degli Slade, degli Sweet, comincia a stufare; la teatralità ampollosa del Glam Rock è alle corde, incapace di andare oltre la superficie per raggiungere la sostanza.
Veloce come un sorcio di fogna, il pub rock ne approfitta e sfonda su tutta la linea, ancora più cattivo del solito, pronto ad insuperbirsi e mordere: dentro di sé cova il virus del punk, una patologia che non ha ancora esposte le pustole putrescenti ma poco ci manca, appena un soffio di eventi nuovi.

Quell’anno il “Notting Hill Carnival” (un festival di colori, musica e danze di origine caraibica dalla tradizione festaiola e solidale) diventa la scintilla che tutti i giovani londinesi stanno aspettando: al posto dei balli e degli abbracci, un’orda sottoculturale di ragazzi bianchi e neri che si scontra con la polizia; al lancio dei mattoni le forze dell’ordine gestiscono la cosa con l’abuso di potere.
Non si tratta di una lotta di stampo razziale, bensì una ribellione contro l’ordine costituito, contro la ferrea linea conservatrice del governo; contro la cultura imperialista british che nasconde dietro un dito la disoccupazione, la depressione dilagante, il crollo trasversale del Welfare State.
I bianchi delle periferie urlano che i neri sono esattamente come loro; dall’altra parte la borghesia e gli sciovinisti a rispondere che “i neri non sono per niente come noi”: nichilismo e reggae a sbattere contro un muro antidemocratico di cavallerie antisommossa.
In quella lontana estate 1976 Londra si prepara a prendere fuoco, sa che per molto tempo non avrà più un’ora serena, uno scopo, alcuna speranza, desideri; ormai il punk si sta lavorando ai fianchi la metafisica, le sovrastrutture, la felicità, l’anima di chiunque.
Da lì in avanti se non hai
un minimale kit di anfibi e parole alienanti e sconclusionate, almeno un piercing saldamente agganciato ad un seno o sulla punta del naso; l’ampio paesaggio della città inglese praticamente non offre più difese, rifugi di sorta, possibilità.

Graham Parker è uno dei pochissimi abilitati a cantare le sue canzoni senza doversi ferire o mutilare; uno stato di grazia che finisce in sala di incisione per uno, due, tre dischi di fila in poco tempo, in completa libertà, senza essere assalito e trasformato in pietra dai facinorosi sulle pubbliche piazze.
Il motivo di tanta attenzione e ammirazione risiede negli spettacoli dal vivo che il Nostro riesce ad allestire; saturati di eccitazione fino al parossismo, onesti perché istruiti sulla strada con ritmi veloci, con un pollice premuto contro la gola in un inferno di adrenalina.
Cosi non stupisce l’arrivo di “The Parkerilla”, un doppio live che esce nel maggio del 1978 (tre lati dal vivo e una versione singola in studio da 12 pollici di “Hey Lord, Don’t Ask Me Questions” sulla quarta facciata); tredici canzoni che sguazzano festanti come un branco di foche tra le onde, come un jukebox spiritato che non si vergogna di sputare per aria generi, stili, sfumature, epoche, provocazione.

Il chitarrista dei Rumour Brinsley Schwarz, pastrano nero e stivali di cuoio con tacco cubano, ha una storia dietro lunga come un ombra alle sette di un pomeriggio d’estate, frastagliata come la cordigliera delle Ande: in virtù di questo è lui a guidare il gruppone con i suoi riff groovy, ad ammortizzare le svolte, favorire i flussi di coscienza e arrangiare il fragore che ne viene fuori.
La voce eccellente di Parker passa di vetta in vetta senza camminare mai lentamente o con prudenza, senza piangere quando l’intonazione e un poco sgualcita o troppo imprudente; il quartetto di fiati gli pizzica il sedere, lo trascina a colpi di trombone, di sax, di barriti e stecche, di casciare e virtuosismi.
Adesiva come una zuppa di avena e parmigiano, la tastiera di Bob Andrews si addentra in ogni spazio accessibile; è lei quella che deve raccogliere la sfida della band, “avere lo scopo di essere la scienza di questo sound” magnificamente sospeso tra i Rolling Stones e Wilson Pickett.
“Lady Doctor” “Fools Gold” “Tear Your Playhouse Down”, la doppia versione di “Hey Lord, Don’t Ask Me Questions” “Heat In Harlem” “Silly Thing” “New York Shuffle” “Soul Shoes” e così tutte le altre; sembrano uscite da una notte stellata, perfettamente antologizzate da una band che non fallisce un intervento, una dose di emozione.

“The Parkerilla” si beccò una caterva di diffamazioni dalla critica più in voga e un deludente esito commerciale; ancora una volta, nonostante il doppio disco sia un capolavoro di coraggio e bellezza, Graham Parker assaggia su per la schiena il terribile morso del freddo, il sentirsi isolato dopo aver fatto ampiamente il suo dovere, il doversi scontrare con le vendite colossali del suo amico rivale Elvis Costello.
Resisterà e con il disco successivo (“Squeezing Out Sparks”) farà un mezzo botto commerciale; niente di clamoroso, giusto la possibilità di dare da mangiare con costanza alle bocche spalancate dei Rumour, il trasferirsi dalle soffitte in appartamenti, qualche strumento più buono, un nuovo guardaroba.

La classica vittoria di un mediano che non è mai una vittoria come la si intende, più una semplice carezza prima di tornare tra il fango fino alle ginocchia, fino al successivo atto di eroismo che un giorno creerà un’umanità migliore.

“The Parkerilla” (registrato tra Inghilterra, Stati Uniti e Galles) rimarrà il testamento di Graham Parker, l’incenso dell’orazione ad un mondo perduto.

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