Francesco Grieco racconta la sua vita “on the road”, tutta dedicata alla musica

(Raffaella Mezzanzanica)

Francesco Grieco non è nato in una famiglia di musicisti o di appassionati di musica. A casa sua si guardava pochissimo anche la televisione. Tutto cambia, però, il giorno della sua Prima Comunione, quando una zia gli regala due album: uno è di Gianni Morandi, l’altro è Sanremo 1991.

Per lui si apre un mondo. Da quel momento, tutta la sua vita sarà dedicata alla musica, prima come musicista, suonando il basso in diverse band e trasferendosi anche in Svezia per inseguire il suo sogno.

Ad un certo punto, Francesco si rende conto che quello che vuole davvero non è stare sul palco. E’ più interessato agli aspetti organizzativi legati al mondo della musica e così inizia a fare diversi lavori in questo settore.

Nel 2015 si trasferisce negli Stati Uniti e diventa il responsabile della gestione del merchandising degli Skillet.

Rientrato in Italia, diventa prima socio di minoranza di una società di organizzazione di tour di artisti internazionali all’estero e, successivamente, fonda Swex Productions, società di booking e tour production, che può vantare, tra gli altri, artisti del calibro di Tony Levin, Gavin Harrison o The Pineapple Thief.

Durante l’intervista via Skype, Francesco mi ha raccontato la sua storia, la sua vita “on the road” come tour manager, la soddisfazione personale per avere potuto organizzare l’unico tour europeo della sua band del cuore e anche quel primo incontro con Gavin Harrison fuori dall’aeroporto di Düsseldorf.

D.: Raccontami un po’ di te e raccontami da dove nasce la tua passione per la musica.

F.G.: Non sono nato in una famiglia dove si ascoltava la musica. Tutt’altro. A dire il vero, quando ero piccolo, non guardavamo nemmeno tanta televisione. Potevo guardarla per circa due ore al giorno: un’ora al pomeriggio, dopo i compiti e un’ora alla sera. Ho iniziato ad appassionarmi alla musica quando avevo circa nove anni. Nel giorno della mia Prima Comunione, mia zia mi regalò due album: uno di Gianni Morandi, l’altro credo fosse Sanremo 1991. A quel punto, mi si è aperto un mondo. Da lì non mi sono più fermato. Ho comprato un basso elettrico, quasi non sapendo nemmeno cosa fosse e ho iniziato a suonare. Ho formato le prime band con i compagni di scuola e, successivamente, crescendo, ho iniziato a conoscere altri musicisti. Mi sono reso conto molto presto che vivere con la musica è una cosa molto difficile, anche ad alti livelli o, comunque, anche a livelli che noi potremmo considerare professionali. In parallelo, ho sempre cercato di lavorare in questo settore. All’inizio, quando avevo diciotto/diciannove anni lavoravo in una sala prove, coprivo i turni la sera e nei weekend. Da lì in poi si è sviluppato un po’ tutto quanto.

Ho suonato in delle band e ho fatto anche dei dischi. Con alcune band di cui ho fatto parte, facevamo anche dei tour veri e propri. Il motivo per cui sono stato in Svezia è perché la mia ultima esperienza da musicista circa dieci anni fa, fu proprio con una band svedese. Mi sono trasferito lì proprio per suonare in questa band che aveva appena firmato un importante contratto discografico. Per tutta una serie di motivi, mi conoscevano già e, quindi, mi proposero di sostituire il loro bassista. Io presi e, letteralmente da un giorno all’altro, mi trasferii per suonare con questo gruppo. Il disco uscì solo in formato digitale. Ho mosso qualche passo nel mondo della musica da musicista. Il fatto è che non mi sono mai considerato un musicista. Mi consideravo parte di una band e, allo stesso tempo, in parallelo, lavorando in questo settore in ambito più organizzativo, come tour manager e come agente, mi sono reso conto che ero più interessato proprio a questi aspetti. Ora che ero arrivato ad un punto in cui avevo circa il 50% di possibilità di andare avanti come musicista e il 50% come organizzatore, sentivo che mi interessava di più l’aspetto organizzativo. Nella mia prima band, a diciannove anni, quando registrammo il primo demo, presi e iniziai a cercare numeri di telefono di promoter in giro per l’Italia per cercare date. Organizzai il mio primo tour a diciannove/vent’anni. Non potevo nemmeno affittare un furgone, perché non avevamo l’età per andare in tour e non avevamo nemmeno una carta di credito per affittarlo. Sono sempre stato attratto più da quell’aspetto che da quello più artistico e ci ho messo un po’ di anni per capirlo. Alla fine, però, l’ho capito.

[Io: La Svezia e tutto il nord Europa possono vantare una certa cultura musicale, meno riferita a generi “mainstream” se vuoi e più di nicchia. In nord Europa, ad esempio, c’è tanto metal, tanto rock “super pesante”. Sentono fortemente questo tipo di cultura musicale].

F.G.: Sì. Hai detto bene. In realtà, il “mainstream” c’è anche lì, però non c’è una chiusura settoriale. Nei cartelloni dei grandi festival si possono trovare artisti appartenenti a tantissimi generi musicali. Poi, magari, c’è il festival di settore, focalizzato ad esempio, solo sul “metal” o solo “punk” ma ci sono festival, ad esempio Bravalla o lo Sweden Rock Festival che sono di settore ma hanno anche ampie vedute. Si va a questi festival e si può trovare di tutto: pop, indie, metal, rock, punk, proprio perché ci sono delle vedute un po’ più ampie rispetto anche all’Italia. In Italia, un festival come lo Sweden Rock Festival difficilmente avrebbe successo. Infatti, non ne fanno di festival come questi, proprio perché se io ascolto metal, non andrò mai a un festival in cui suonano artisti pop, ad esempio. A me è capitato di lavorare al Roskilde, vicino a Copenhagen. Quell’anno c’erano i Volbeat e, subito prima, c’era Rihanna. E il Roskilde è uno dei festival di maggior successo di tutta la Scandinavia.

D.: Prima di arrivare ad essere CEO di Swex Booking hai fatto diversi lavori, sempre e comunque a stretto contatto con la musica. Qual è stata l’importanza di queste esperienze nel tuo percorso?

F.G.: Sono state tutte molto importanti. Mi riferisco sia alle esperienze come musicista, come membro di una band, sia a quelle attività svolte durante tutto il mio percorso. Io, oggi, produco tournée, organizzo concerti ma, per anni, ho fatto veramente di tutto, a parte il fonico, nella produzione di un tour: tecnico delle chitarre, autista del tour bus, gestione del merchandising, assistente di produzione. Ho ricoperto un ventaglio di ruoli abbastanza ampio e questo mi ha permesso di fare tanta esperienza, esperienza che continuo a fare, ad esempio per certi tipi di produzioni che non sono le mie.

E’ come se avessi fatto uno “stage” per dieci/quindici anni, lavorando ovunque trovassi una porta aperta e imparando tanto. Il fatto di essere io stesso un musicista mi ha permesso di conoscere quali siano le dinamiche di una band e le problematiche di un gruppo a livello umano, a livello finanziario, logistico. Conosco molto bene tutte queste dinamiche e questo mi ha aiutato perché, quando poi magari ti trovi in tour per mesi con un gruppo, avere avuto un’esperienza simile mi aiuta e mi ha aiutato in passato a rendermi conto anche di determinate situazioni e affrontarle nel modo più giusto. Una delle tante sfaccettature del tour manager è anche quello di diventare un po’ “psicologo degli artisti”, perché ti trovi in tour e devi affrontare di tutto. Avere questo tipo di esperienza mi ha aiutato tanto. I tanti lavori svolti mi hanno aiutato a capire come funziona questo mondo e ad essere in grado di occuparmi di tanti aspetti organizzativi. L’esperienza da musicista, invece, mi ha aiutato a capire determinati aspetti umani che, comunque, sono essenziali in tour.

[Io: Durante i tour, ti è mai capitata qualche richiesta assurda da qualche artista? So che una domanda che viene fatta spesso ma sai, si sentono le cose più strane sulle rock star, per cui non si sa mai cosa sia vero e cosa non lo sia]

F.G.: In realtà, no. In effetti, ho sempre pensato che il motivo fosse anche un po’ la tipologia di musicisti con cui solitamente lavoro. Come tour manager, da un certo punto della mia vita in poi, ho sempre lavorato con artisti principalmente “progressive rock”, quindi, più che di “rock star” stiamo parlando di “musicisti” nel verso senso della parola. Ad esempio, Gavin Harrison è un “musicista” nel vero senso della parola. Non è una rock star, anche se potrebbe tranquillamente considerarsi tale. Ho riscontrato questo aspetto anche lavorando con altri artisti: Tony Levin o Adrian Belew, ad esempio. Raramente mi sono trovato a dover affrontare richieste assurde da parte degli artisti con cui lavoro. Da una parte c’è un discorso di “umanità” e, dall’altra, la questione è legata a “dove sei arrivato”. Molto spesso mi è capitato di vedere, anche in altre produzioni o in altre band, atteggiamenti da “rock star” e, paradossalmente, si trattava di artisti tutt’altro che affermati. L’artista affermato non deve dimostrare niente a nessuno. Uno degli artisti di cui ho sempre sentito parlare benissimo da parte di chi ha avuto la possibilità di lavorare con lui è Paul McCartney. E’ la persona più con i piedi per terra di cui ho sentito parlare. Un artista arrivato non deve dimostrare niente a nessuno, quindi anche le richieste si riferiscono a ciò di cui effettivamente hanno bisogno in quel momento.

Mi ritengo molto fortunato perché ho sempre lavorato con artisti che, soprattutto dal punto di vista umano, sono ineccepibili.

[Io: In effetti, tra le mie domande c’era anche la seguente: “Quanto è importante l’aspetto umano negli artisti che scegli di rappresentare?”]

F.G.: Quello è un po’ la “scatola di cioccolatini”, nel senso che non sai quale sia l’aspetto umano finché non ti ritrovi in tournée. Impari a conoscerlo nei giorni in cui vivi e lavori con gli artisti e passi con loro tutta la tua giornata. Un tour, normalmente, dura tre/quattro settimane e quindi, stai costantemente insieme agli artisti (in aereo, in furgone, sul tour bus). Impari a conoscerne l’aspetto umano abbastanza velocemente. Prima di partire, quando non conosci l’artista, non puoi nemmeno immaginare come sia “umanamente”. Quella è una grossa incognita. Come ti dicevo prima, sono sempre stato molto fortunato da questo punto di vista. L’aspetto umano ha sempre funzionato bene, sia con gli artisti che con le crew. Alla fine, non è che stai soltanto con l’artista. A seconda di quanto è grande la produzione, ci saranno anche i fonici, i tecnici, il tecnico luce, l’autista del tour bus. Ad esempio, con The Pineapple Thief siamo un totale di undici persone, ma la band è composta da cinque. Più è grande una produzione, più personale è coinvolto e più l’aspetto umano diventa difficile da gestire. Trovare un equilibrio dal punto di vista umano all’interno di un tour bus di 20 mq. nei quali vivi per un mese, con altri nove/dieci pseudo-sconosciuti (almeno all’inizio) è davvero difficile. Poi si diventa quasi come fratelli. La cosa più difficile non è tanto mantenere l’equilibrio dal punto di vista umano ma è trovarlo.

Per me, The Pineapple Thief è stato uno dei più grandi successi dal punto di vista umano. Ho iniziato a lavorare con loro a fine 2017 e, in quel periodo, c’era una situazione in cui bisognava un po’ ricostruire anche tutto il comparto tecnico. Loro avevano bisogno di nuovi tecnici e io ne conoscevo alcuni con cui avevo lavorato in Italia. Finché non è partito il tour avevo il terrore di questa cosa, perché ci siamo ritrovati in una crew in cui metà erano inglesi, metà erano italiani e la band era inglese. Conoscevo le persone che avevo proposto e sapevo fossero ottime sia dal punto di vista professionale che umano, però non sapevo a cosa sarei andato incontro. Se qualcosa fosse andato storto, sarebbe stata una mia responsabilità. Alla fine, tutto ha funzionato molto bene e quella stessa crew è la stessa che segue i Pineapple Thief ormai da tre anni. E’ questo ciò a cui si riferiscono certi artisti quando parlano di “famiglia in tour”: una volta trovato quell’equilibrio umano e professionale non lo vuoi cambiare. Se, per caso, lo devi cambiare perché qualcuno decide magari di seguire un’altra strada, è difficile inserire un nuovo elemento senza modificare gli equilibri interni.

Il fattore umano, quando sei in giro, è essenziale ed è anche più importante del fattore professionale. Ci sono ottimi tecnici che sono stati allontanati da un tour perché erano totalmente carenti umanamente. Ti deve piacere quello che stai facendo. Se non ti piace quello che stai facendo in questo campo, lascia stare. Fai altro. Io adoro andare in tour. E’ la mia condizione ideale. Per quanto sia faticosissimo perché non dormi, mangi male, vivi in un pullman in 20 mq. con altre dieci persone, non hai soste perché se sei un tour manager inizi a lavorare almeno due mesi prima dell’inizio del tour e poi, dal momento in cui parte al momento in cui finisce, lavori 24 ore su 24. Non lavori quando dormi, ma dormi poco, e quando magari c’è un day off e il tour è nella fase conclusiva e riesci quindi a ritagliarti momenti per te. Altrimenti si tratta di lavorare 24 ore su 24. Se non mi piacesse, non lo potrei fare. Lo stesso vale per i musicisti e i tecnici.

D.: Tu hai lavorato per diversi anni negli Stati Uniti. E’ chiaro che per chi abbia voglia di lavorare in ambito artistico città come Londra o gli Stati Uniti in generale siano fonte di grandi opportunità. Mi racconti un po’ della tua “esperienza americana”? Quali differenze ci sono rispetto all’Europa o all’Italia?

F.G.: La mia prima esperienza lavorativa negli Stati Uniti è stata alla fine del 2015 con una band metal americana che si chiama Skillet. Li conobbi nel 2014 quando fecero i loro primi due tour europei. Iniziai allora a lavorare con loro e loro, nel secondo tour nell’autunno del 2014, mi proposero di seguirli negli Stati Uniti per occuparmi del merchandising. Gli Skillet sono una band “cristiana”. In realtà, loro sono un po’ borderline perché stanno praticamente a metà tra la musica “cristiana” e la musica “secolare”. La musica “cristiana” in America è un mondo a parte, che noi qui non riusciamo a comprendere. Ci sono artisti di musica cristiana che suonano qualunque genere, dal pop al country, al metal, al punk, al rap. C’è di tutto. E chi ascolta la musica “cristiana” ascolta solo musica “cristiana”. Gli Skillet sono diventati famosissimi in quel circuito e poi si sono spostati in un circuito più “mainstream”. Quando ho iniziato a lavorare con loro durante il tour europeo, si esibivano in piccoli club, mentre in America erano già molto famosi. Io passai, quindi, da un tour in cui c’erano 500/600 persone alle arene dell’NBA o dell’hockey negli Stati Uniti. Andai negli Stati Uniti pensando di vendere le magliette ai concerti e mi ritrovai a lavorare in una sorta di multinazionale del merchandising perché, quando suoni in un’arena con 15.000 persone ogni sera, lo stand è una cosa enorme. Io, in realtà, mi occupavo della parte più organizzativa. Alla vendita allo stand, anzi agli stand (erano due) c’erano una quindicina di persone ogni sera.

Il mio primo impatto negli Stati Uniti è stato lo stesso che hai quando vai da turista: “E’ tutto più grande! E’ tutto gigantesco!”. Ecco, il mio impatto musicale è stato lo stesso. Con loro ho fatto diversi tour, arrivando a diventare assistente di produzione. Questa è la prima differenza rispetto a come funzionano le cose in Italia. Io ho iniziato a lavorare con loro nel 2014 guidando il tour bus in Europa. Sei mesi dopo avermi conosciuto mi hanno affidato il loro merchandising. Nel giro di poche tournée ho avuto dei ruoli organizzativi anche abbastanza importanti all’interno di quella produzione.

La prima differenza è il fatto che ti permettono di crescere, assumendosi anche la responsabilità del fatto che tu possa sbagliare. Hanno creduto in me e siamo andati avanti per anni. Adesso, da un paio di anni non abbiamo più lavorato insieme ma, semplicemente per il fatto che quando erano in tour qui in Europa, io ero impegnato su altri progetti. Il fatto di dare fiducia a un perfetto sconosciuto, di un’altra cultura, di un altro Paese, portarlo a casa propria è una grande responsabilità.

Questo aspetto contraddistingue gli Americani. Non è raro vedere anche artisti importanti che hanno tour manager giovanissimi.

Se tu vali, se tu lavori e dimostri di lavorare sodo, ti permettono di andare avanti e di crescere con loro.

In Italia, potresti ricoprire il ruolo di tour manager magari dopo vent’anni di lavoro nel settore. Le grosse produzioni italiane coinvolgono, più o meno, sempre lo stesso personale tecnico e di produzione.

La mia fortuna è stata quella di aver iniziato a lavorare con gli Americani già dal 2005. Loro mi hanno permesso di fare esperienza e questo mi ha dato la possibilità di costruirmi un profilo professionale. Se avessi lavorato con produzioni italiane sin dall’inizio, oggi avrei avuto più esperienza e sarei cresciuto ma magari, non nello stesso modo e non così velocemente come mi è successo.

Dopo la mia prima esperienza con gli Skillet mi sono reso conto che, anche grazie alle persone che avevo conosciuto in quella tournée, avrei potuto fermarmi e proseguire la mia esperienza negli Stati Uniti.

Quello della musica dal vivo negli Stati Uniti è un mercato gigantesco. Dai concerti alle partite di hockey è tutto uno spettacolo. Gli Americani hanno un po’ questa predisposizione a spettacolarizzare tutto quello che fanno. Mi sono chiesto più volte: “Avrebbe senso mollare tutto quello che ho qui e spostarmi in America?”. E’ una cosa che ho preso in considerazione più volte ma c’è sempre stato qualcosa che mi ha trattenuto qui ed è stato quel qualcosa che mi ha fatto fare dei successivi passi in avanti. Nel 2016, ad esempio, questa idea era particolarmente forte. Il problema è che non è semplice. Non puoi semplicemente prendere e trasferirti. C’è tutta una situazione molto complicata legata ai visti lavorativi. Un visto lavorativo è molto costoso e, in aggiunta, devi avere già un lavoro. Quello che mi ha trattenuto in Europa è stato il fatto che, proprio in quel periodo, nel 2017, venne fuori la possibilità di organizzare il tour europeo di Elio e le Storie Tese. Io sono cresciuto con Elio e le Storie Tese. Il loro è stato il primissimo concerto a cui sono stato quando avevo quattordici anni. Alla fine, sono rimasto in Europa più per una cosa personale che professionale: avere la possibilità di portare in Europa e mettere la mia esperienza al servizio di una band con la quale ero cresciuto divenne per me una cosa molto importante. Il tour andò benissimo ed è stata una delle esperienze più entusiasmanti che ho avuto. E’ stata anche una delle pochissime esperienze che ho avuto con artisti italiani. Finito quello sono arrivati The Pineapple Thief e lì è nata un’altra grandissima opportunità lavorativa e di crescita.

[Io: Ecco appunto: Elio e le Storie Tese. Avevo proprio una domanda da farti anche su di loro. Anzi, ti leggo un estratto di un articolo intitolato: “Elio e Le Storie Tese: «Ci sciogliamo (ma solo in Italia) perché gli italiani non ci meritano» apparso su “Il Messaggero”, il 15 marzo 2017: «Ci siamo sciolti ma solo in Italia, possiamo andare avanti all’estero. La verità è che ci siamo sciolti perché gli italiani, o almeno una parte di italiani, non ci merita. Non si sono neanche sforzati di capirci. Se fossimo nati all’estero sarebbe stato diversissimo». In aggiunta, io sono assolutamente d’accordo con quanto hanno affermato nell’intervista a Il Messaggero. Se fossero nati all’estero non faremmo fatica a paragonarli ad esempio a Frank Zappa, ma anche ad altre band prog o ai Pink Floyd (ho visto una loro versione di “Shine On You Crazy Diamond” su YouTube davvero incredibile!) Ti dico la verità: come tanti, io onestamente non ho capito se si siano sciolti oppure no. Tu cosa mi puoi dire?]

F.G.: Questa è una domanda che andrebbe fatta direttamente a loro. In realtà sì. Diciamo che l’esperienza del tour europeo per loro è stata illuminante. Quando proposi questa cosa, per loro fu più uno sfizio che si volevano togliere perché non avevano mai avuto questa opportunità. Avrebbero sempre voluto averla ma mai nessuno aveva pensato di organizzare per loro un tour europeo, prendendosi anche il rischio di organizzarlo. Per loro era partita in questo modo. Non volevano perdere dei soldi e il tour nacque un po’ con queste premesse. In realtà, poi, il tour andò benissimo e non solo dal punto di vista di pubblico, ma anche dal punto di vista musicale. Questo perché loro si ritrovarono dopo tanti anni a suonare nei club. Il tour che avevano fatto nel 2016 in Italia era nei palazzetti e, fino ad allora, avevano suonato nei teatri e comunque su grossi palchi. In Europa, chiaramente, il pubblico era ridotto rispetto all’Italia e, quindi, il tour si fece in location più piccole. Dopo i primi concerti, venne il loro storico fonico, Foffo Bianchi, gota della fonìa in Italia, e disse che non li vedeva suonare in quel modo da anni. Il motivo fu proprio il fatto che si ritrovarono a suonare nei club. Elio e le Storie Tese sono una band da club. Loro hanno bisogno di stare a stretto contatto con il pubblico, per il coinvolgimento ma anche per il fatto che, quando suonano, stanno molto vicini l’uno all’altro e, in questo modo, riescono a vedersi e a capirsi. Per un musicista, questa è un tipo di esperienza totalmente diversa rispetto a dover suonare in uno stadio o in un palazzetto.

Lo scioglimento è tutta una storia un po’ complessa da affrontare. Quando hanno preso questa decisione, hanno comunque voluto lasciare la possibilità di poter ripetere quell’esperienza, magari in modo un po’ diverso. Ad esempio, il tour bus è stato un po’ traumatico per loro. Il fatto di essersi sciolti “solo per l’Italia” deriva un po’ da questo. C’è poi un altro aspetto: ai concerti in Europa il pubblico era prevalentemente italiano, però c’erano degli stranieri che venivano a vederli. Magari erano tedeschi che avevano vissuto in Italia e li avevano conosciuti e apprezzati nel nostro Paese. C’era anche qualche curioso, grazie al tipo di promozione che cercammo di fare. Questo funzionò molto bene. Mi ricordo, ad esempio, che ad Amsterdam i tecnici locali che, ovviamente, non capivano assolutamente una parola, sono rimasti a vedere tutto il concerto con grande interesse. Questo è molto importante perché, normalmente, i tecnici locali fanno assistenza nel montaggio, nel settaggio di tutto quanto ma poi, durante il concerto, non rimangono in sala. Lì non si sono mossi ed è stato così praticamente in tutte le date. A Londra, il concerto fu registrato per farne un DVD che poi non è mai uscito. C’era questa troupe televisiva inglese che venne a riprendere il concerto e mi ricordo questo operatore sotto al palco che si “spaccava in due dalle risate”. Evidentemente non capiva una parola, non capiva nulla di ciò che stava succedendo ma vedere, ad esempio, Mangoni sul palco che ballava con la scopa lo faceva morire dal ridere. Non so cosa siano riusciti a prendere da quella telecamera perché penso che l’immagine fosse tutta traballante. Il montaggio, comunque, è stato fatto ed è fantastico. Spero che prima o poi lo facciano uscire perché è davvero molto bello.

Lì ci fu anche una presa di coscienza: se è vero che fuori dall’Italia nessuno sa chi siano Elio e le Storie Tese, resta comunque il fatto che, se esiste il supporto di un’adeguata promozione e se lanciati nel modo più corretto, potrebbero, anche solo a livello musicale, togliendo tutta la parte dei testi, costruirsi un seguito anche all’estero. E’ improbabile pensare a un tour nei palazzetti all’estero, però, suonando per un pubblico di amanti di Frank Zappa loro potrebbero sicuramente riscuotere un certo successo. Forse, questo è il motivo per cu si sono sciolti in Italia e non all’estero. Purtroppo, non c’è più stata occasione di fare nulla anche se ne abbiamo parlato in più occasioni. Uno dei motivi è sicuramente che un tour all’estero è estremamente costoso e non sono costruiti su “date singole” (fai il concerto e poi torni a casa). Un tour europeo, al contrario, viene costruito “in continuità”. Parti, ti fai venti date di tournée in tre/quattro settimane e poi torni a casa. Questo rende tutto più complicato. Diciamo, quindi, che “tecnicamente” non si sono sciolti all’estero.

D.: Mi racconti qualcosa in più sulla tua società, Swex Productions?

F.G.: Faccio prima un passo indietro. Intorno al 2004 al 2005 iniziai a lavorare come “road manager” per alcune agenzie che organizzavano tour di artisti stranieri in Italia. Da lì, poi, ho iniziato ad occuparmi di tour europei. Nel 2007, iniziai a lavorare con un’agenzia italiana che organizzava molti tour di artisti internazionali all’estero, inizialmente come “road manager”. Ad un certo punto, avendo qualche anno di esperienza ed avendo raccolto una serie di contatti, mi proposi per curare anche la parte di booking, cioè l’organizzazione vera e propria della tournée. Quando iniziai a lavorare per questa agenzia mi portai una rubrica di contatti di promoter che loro non avevano. Iniziai a lavorare in una duplice veste: agente (organizzazione del tour, vendita delle date ecc.) e poi di tour manager, seguendo gli artisti direttamente durante la tournée e occupandomi anche di tutta la parte pratica, logistica e di produzione. Questa esperienza lavorativa è durata circa quattro anni, fino al 2011. Ero riuscito anche a diventare socio, anche se di minoranza, dell’agenzia. Mi sono, però, reso conto che c’erano molti aspetti che non mi piacevano o che avrei fatto diversamente. Ho deciso, quindi, di andarmene e di fondare una mia agenzia per poter fare le cose secondo la mia visione. Ho fondato Swex Booking nel 2011/2012. Inizialmente era una società italiana. Dopo due anni, mi sono trasferito in Inghilterra, quindi l’ho spostata in Inghilterra. In origine, avevo solo due artisti: i Theatres des Vampires, gruppo gothic metal di Roma, abbastanza conosciuto nel circuito e con un discreto seguito in Sud America e l’altro era Tony Levin, con cui feci il mio primo tour nel 2006, come tecnico, guidando il furgone e occupandomi del montaggio degli amplificatori. In quel periodo lo seguivo con la “Tony Levin Band”. Quando poi tornò con “Stick Man”, con Pat Mastelotto e, all’epoca, Michael Bernier, poi sostituito da Markus Reuter, continuò a chiamarmi. Nel 2010, Tony Levin mi coinvolse anche nel booking del tour e io lo portai dentro l’agenzia con la quale stavo lavorando. Quando me ne andai dall’agenzia, lui decise di seguirmi e non rimase con loro. Lì è nata la Swex Booking.

Sempre in quell’anno, Gavin Harrison aveva un progetto che si chiamava Gavin Harrison & O5Ric, progetto di “prog estremo” con questo artista canadese. Gavin chiese a Tony (Levin) se avesse un agente da suggerirgli perché voleva portare in tour questo progetto. Tony gli fece il mio nome.

Così è nata la mia avventura con Gavin Harrison. Abbiamo fatto due tour nel 2013. Si trattava di tour molto brevi, con pochissime date, in posti molto piccoli. Fu, comunque, una bella esperienza. In quell’occasione, Gavin portò un fonico italiano, cosa che mi stupì. Fu proprio Gavin a dirmi che mi avrebbe messo in contatto con il fonico per il tour. Si trattava di Andrea Pellegrini. Ero un po’ sorpreso dal fatto che un artista inglese si portasse un fonico italiano che, tra l’altro, viveva in Italia. Conoscendo Gavin Harrison e, sapendo quanto sia meticoloso sul suono, ho capito il perché avesse scelto Andrea. Andrea Pellegrini è il discepolo di Foffo Bianchi e, con lui è nata poi una collaborazione professionale, oltre che una grande amicizia che va avanti tutt’ora.

Il primo tour con Gavin fu nella primavera del 2013. Io ero rientrato pochi giorni prima da un tour in Sud America con un’altra band con cui stavo collaborando, i Vision Divine, band metal italiana. Saltai, quindi, i primi due concerti del tour di Gavin. Mi vennero, quindi, a prendere in aeroporto a Düsseldorf per andare poi a fare il concerto in un jazz club minuscolo a Münster. Fuori dall’aeroporto vidi un furgone e pensai che ci fossero degli zingari che fossero lì a prendere qualcuno in aeroporto. Si trattava di un Ford Transit degli anni ’80 che era stato di proprietà di un collegio femminile e aveva le scritte del collegio che ancora in parte si leggevano. In realtà, era il furgone con cui erano venuti a prendermi. Io sono un grande fan di Porcupine Tree e conoscevo Gavin più per i suoi lavori con Porcupine che con King Crimson. Diciamo che rimasi un pochino sorpreso nel vederlo arrivare con questo “catorcio”.

A livello economico, il furgone aveva perfettamente senso. Fu, comunque, un po’ uno shock. Ho conosciuto così Gavin Harrison. Chiaramente, ci sentivamo, ci scrivevamo da mesi, però, l’ho conosciuto così. Tony Levin ci presentò a fine 2012, ci sentimmo telefonicamente e per e-mail. Iniziai, poi, a lavorare sul tour e lo organizzai per la primavera del 2013. Tuttavia, prima di quell’occasione a Düsseldorf, non l’avevo mai visto dal vivo.

[Io: Quindi, tu hai conosciuto Gavin Harrison in quel contesto, fuori dall’aeroporto di Düsseldorf con quel furgone…fantastico!].

F.G.: Esattamente. Si aprì il portellone di quel catorcio e uscì fuori Gavin Harrison. E quello fu un tour fantastico, pur tra mille difficoltà. Ad esempio, passando tra Austria e Germania, ad un certo punto, il furgone si fermò e non riuscivamo più a farlo ripartire. Era notte ed eravamo in mezzo a questa strada statale in mezzo ai boschi. Come qualsiasi tour, fu una bella avventura. Da quel momento, si è creato davvero un bel rapporto con Gavin e con Andrea Pellegrini.

A Verona, scendendo in Italia, esplose la marmitta. Avevamo un concerto a Verona e dovetti cercare un “marmittaro” (come si dice a Roma).

D.: La pandemia ha causato enormi danni economici a tutti ma è innegabile che la musica sia stata tra i settori più impattati a livello globale. Stai notando qualche segnale di ripresa oppure siamo ancora lontani?

F.G.: Io e altri colleghi siamo dell’idea che i primi spiragli per un ritorno alla musica dal vivo potrebbero esserci a partire da febbraio 2021. In tutti questi mesi, è stato tutto un “fare e disfare piani”. Un tour, soprattutto se si tratta di un tour internazionale, si organizza almeno con sei mesi di anticipo, a volte anche un anno. Io, quest’autunno, avevo in programma un tour di quarantadue concerti con The Pineapple Thief per la promozione del nuovo disco, in aggiunta a quindici/venti concerti con Stick Man di Tony Levin e altri dodici concerti con O.R.k. a settembre. Parliamo di sessanta/settanta concerti saltati solo durante l’autunno (da settembre a dicembre). La cosa difficile, in questo contesto, è la programmazione. Si può, ad esempio, pensare di spostare le date di settembre 2020 a maggio 2021 perché ritengo che questa situazione si possa risolvere. Quando lo faccio, però, è aprile 2020, cioè un anno prima. La cosa difficile è capire quando tutto questo sarà finito, quando sarà possibile fare concerti senza mascherine, senza distanziamento sociale, senza limiti di capienza. Ad esempio, quest’estate qualcosa si è fatto. In Italia, all’aperto, si potevano fare concerti con un pubblico fino a 1.000 persone sedute e 200 se al chiuso. Negli altri Paesi europei, c’erano delle restrizioni più o meno simili. Tuttavia, è stato possibile organizzare questi eventi nel rispetto delle limitazioni solo a partire dalla seconda metà di giugno. Purtroppo, il tempo è stato pochissimo ed è diventato praticamente impossibile organizzare delle date, se non a livello nazionale. Non ci sono stati tour internazionali perché non c’è stato materialmente il tempo di organizzarli. In aggiunta, la situazione era ed è talmente precaria che si rischia di partire e poi di ritrovarsi a metà del tour con il resto delle date cancellate. Diventa un grosso problema anche dal punto di vista economico. Ogni giorno di tour ha un costo enorme. In molti, quindi, me compreso, hanno preferito non fare nulla. Sto anche pensando a riprogrammare delle date per tour in programma nel primo trimestre del 2021. Questo è quello che ho fatto in questi ultimi nove mesi: spostare date e cercare di capire quando spostarle e, a volte, spostarle nuovamente. Per The Pineapple Thief ho dovuto spostare il tour negli Stati Uniti per marzo 2021. Ad agosto, quando avremmo dovuto iniziare la campagna promozionale del tour, ci siamo resi conto che la situazione in America era tragica e sarebbe stato impossibile portare una band inglese negli Stati Uniti a fare un tour di trenta/trentacinque concerti.

Quando si ripartirà, si ripartirà tutti quanti. Questo comporterà un primo problema che consisterà nel trovare le location disponibili anche in giornate che solitamente nessuno vuole, ad esempio al lunedì. Mi riferisco soprattutto ai locali medio/grandi (es: Magazzini Generali a Milano), con taglio 500/1.000 di capienza. Non si trova nulla perché, in aggiunta alla programmazione che già era stata fatta per l’autunno 2021, tutto quello che era previsto nel 2020 è stato tutto spostato di un anno. Chi fa tour nei palazzetti, come ad esempio Nick Cave, prima ha spostato di un anno. Alla fine, data la situazione di grande incertezza anche per il 2021, hanno deciso di cancellare definitivamente il tour. Non avrebbe senso spostare un tour di due anni, così la soluzione rimane quella di cancellarlo, salvo riprogrammare il tutto quando il contesto lo permetterà. Con The Pineapple Thief, ad esempio, a maggio/giugno ci siamo resi conto che il tour in autunno non si sarebbe potuto fare e ho, quindi, iniziato a riprogrammarlo. A marzo avremmo dovuto andare in tour negli Stati Uniti (marzo/aprile/maggio 2021) ma, tenendo conto anche degli impegni di Gavin Harrison con i King Crimson, avremmo dovuto spezzare il tour e spostarne una parte a inizio 2022.

La data di Roma, prevista originariamente a ottobre 2020, è stata spostata a febbraio 2022. Oggi, a distanza di sei/sette mesi, mi rendo conto che non sto nemmeno dando per scontato che questo tour si farà. Il rischio è che si debba spostarne nuovamente la prima parte prevista per ottobre 2021 e riprogrammarla per il 2022, riuscendo a partire a fine febbraio 2022 con le prime date.

Tutto dipenderà molto anche dal piano di vaccinazione e di quali misure saranno adottate nel corso dei prossimi mesi.

La mia visione è che, probabilmente in primavera si tornerà ad una situazione simile a quella della scorsa estate, con concerti solo seduti, con distanziamento ecc. Potrebbero esserci dei limiti maggiori sulla capienza consentita nelle varie location, soprattutto per i teatri al chiuso più grandi. Ad esempio, la sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica ha una capienza di 2.800 posti seduti. Non si può pensare di mettere un limite a 200 in un posto del genere. Lì si possono mettere in sicurezza anche un migliaio di persone, perché è stato progettato per un numero enorme di pubblico. Ci sono tante uscite, tanti percorsi separati. Con l’estate, magari, torneranno anche i concerti in piedi, probabilmente non negli stadi e con capienze limitate in spazi sufficientemente grandi.

In autunno, non saprei. Magari si potrebbe tornare alla musica in Italia, ma non in Francia o in Germania perché tutto dipende dalle legislazioni locali. Organizzare un tour che magari interessa quindici/venti nazioni contemporaneamente diventa ancora più complicato.

Ci sono molti artisti che quest’estate hanno deciso di andare avanti comunque. Ad esempio, io sono stato coinvolto come tour manager per Tosca. Lei, ad esempio, ha fatto molte date quest’estate, pur considerando la situazione. Tutto è stato fatto grazie alla passione del promoter e all’artista stessa. Elisa, quest’estate, ha fatto otto concerti con lo scopo di sostenere i suoi musicisti e i suoi tecnici. Ha semplicemente coperto le spese e il profitto del tour è andato a chi lavora per lei e con lei.

Un altro grande problema che ci sarà quando si ripartirà a pieno regime sta nel fatto che tante persone che fanno questo lavoro non potranno più farlo. C’è una perdita enorme di professionalità che, purtroppo, è già iniziata. Leggevo, ad esempio, l’altro giorno che in Italia il 30% dei lavoratori dello spettacolo ha abbandonato e sta già facendo altro. In Italia, purtroppo, non ci sono tutele per i lavoratori del mondo dello spettacolo. Adesso, il Ministero per i Beni Culturali si è reso conto che non esistono leggi o tutele. In una situazione come questa in cui devi avere un controllo su quello che è il mondo del lavoro per quel settore, ti accorgi che, effettivamente non ce l’hai. La situazione è disastrosa, e non solo in Italia. E’ così ovunque, in tutti i Paesi. In alcuni Paesi si è solo fatto qualcosa in più rispetto ad altri, ma, in generale, la situazione è davvero drammatica. In Italia è caos puro, anche perché nessuno si è mai curato di questo settore, di come funziona, di chi ci lavora. Il settore non è regolamentato e adesso ne paghiamo le conseguenze.

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