Foo Fighters – Medicine at Midnight

(Andrea Romeo)

Questo pare essere, inevitabilmente, l’anno delle discussioni musicali: non sono ancora sopite quelle riguardanti il nuovo album di Steven Wilson ed ecco che un’altra band, ed anche di un certo peso, esce con un album che, ne siamo certi, non mancherà di innescare polemiche, il cui tenore, più o meno, potrebbe essere del tipo: “I Foo Fighters si sono ammorbiditi…” e via così (… ma anche peggio, in verità…).

Andiamo con ordine, però, giusto per dare una collocazione all’ultimo lavoro del gruppo, questo Medicine at Midnight che, già pronto da tempo, a causa della pandemia ha anch’esso subito un certo ritardo nella pubblicazione.

Intanto la band di Dave Grohl non è mai stata un gruppo di rock “pesante”, anzi, probabilmente rappresenta proprio quella linea di demarcazione che l’ex-batterista dei Nirvana ha voluto porre come intangibile, ed invalicabile, per evitare qualsiasi possibile deriva verso un passato musicale importante, in un certo senso ingombrante e sicuramente assai doloroso.

In secondo luogo, i Foo Fighters erano giunti ad un punto in cui qualcosa andava necessariamente cambiato, perché il rischio era quello di rimanere confinati in una sorta di limbo in cui, se dal vivo le cose funzionavano comunque alla grande, perché i sei, sopra un palco, hanno veramente pochi rivali in circolazione, in studio iniziavano forse a funzionare un po’ meno.

Ed allora, chiariamo subito una cosa: questo non è un disco puramente pop, ma certamente i chitarroni roboanti e le tirate con l’acceleratore a tavoletta hanno fatto un deciso e sostanziale passo indietro: prendete i Television in una giornata di “buona”, Paul Weller in modalità “good mood” ed un Lenny Kravitz meno “ingrugnato” del solito, mescolateli, ed avrete più o meno la direzione, anzi, le direzioni verso le quali si muoverà ragionevolmente la band di Seattle da adesso in poi.

Questo è, innanzitutto, un album piacevole, divertente da ascoltare, interessante da scoprire, ed in cui ogni brano presenta caratteristiche differenti che possono rappresentare, prese singolarmente, una serie di ipotesi per i lavori futuri.

Ciò che salta all’orecchio immediatamente è innanzitutto la centralità assunta dalla batteria di Taylor Hawkins che rappresenta l’asse portante di tutti i pezzi, e questo grazie ad una continua proposta di patterns ritmici differenti sui quali Nate Mendel, Pat Smear, Chris Shiflett e lo stesso Grohl hanno modo di “giocare”, senza sentirsi affatto limitati nel dover per forza “andarci giù pesante”; a questo approccio così differenziato va aggiunta la presenza, affatto secondaria, del tastierista Rami Jaffee, autentico collante melodico che conferisce intensità e profondità a molti passaggi.

Ed ecco che non stupisce per nulla un esordio come Making a Fire, brano introdotto da Hawkins e che, nel suo incedere, mescola un po’ di anni ’70, cori soul-funk e chitarre belle quadrate; sempre il batterista detta il ritmo della successiva Shame Shame, vera incursione nel funk che scivola, a tratti, verso la ballad pop, mantenendo però sempre una base ritmica originale e mai troppo morbida.

I fans della band a questo punto potrebbero essere già ampiamente spiazzati, perché i Foo Fighters hanno mostrato in soli due pezzi una serie di novità inattese e curiose… beh, non è certo finita qui, perché Cloudspotter non solo riprende qualche suggestione del primo brano, ma insiste sul versante funk anche dal punto di vista chitarristico, ripescando tra l’altro riminescenze grunge mai del tutto sopite.

Ciò che risulta interessante è come la band abbia amalgamato tutto questo bagaglio musicale: l’atmosfera generale è positiva, spensierata, appena offuscata dalle prime parole del brano più malinconico del lotto, quella Waiting On A War che esordisce con una frase, I’ve been waiting on a war since I was young, since I was a little boy with a toy gun, never really wanted to be number one, just wanted to love everyone…” che colpisce e fa riflettere, prima di esplodere in un finale da corsa mozzafiato.

Medicine at Midnight è un rock anni ’80 (decade che sta obbiettivamente attirando un notevole interesse in questo periodo e che, a questo punto, rischia addirittura una rivalutazione inattesa, dopo anni in cui è stata spesso snobbata) che strizza l’occhio a David Byrne, ed anche a Bowie,ma con un retrogusto stoner, ed il passo successivo, Not Son of Mine, rimescola ancora una volta le carte: hardcore, punk, garage rock, “frullati” e serviti nudi e crudi.

I Foo Fighters sono una band storicamente “radiofonica”, ne sono pienamente consapevoli, non sfuggono a questa loro attitudine e, con Holding Poison lo mettono in chiaro senza girarci intorno: rock, diretto, con tutti i suoi riffoni al posto giusto ma che qualsiasi deejay, anche non rock-oriented, potrebbe serenamente selezionare nell’ambito di una propria playlist, semplicemente perché ci stà bene, perché ti si stampa in testa, fà battere il piedino e scuotere la testa; figuriamoci in uno stadio, con decine di migliaia di persone che si trovano lì per prendersi un paio d’ore di puro divertimento e di condivisione “energetica” collettiva.

Chasing Birds si può considerare, senza problemi, la classica ballad “cheek to cheek” oppure, per i più critici, il brano “ruffiano” per eccellenza… un po’ di John Lennon (Woman, I can hardly express…), zuccherosa quanto basta ma, diciamolo, suonata alla grande ed arrangiata con equilibrio; e se pop, alla fine, almeno un po’ dev’essere, che pop sia, con la conclusiva Love Dies Young che parte forte, minaccia chissà quali sfracelli ma diventa quasi subito un pezzo ballabile cosa che, probabilmente, era l’obbiettivo finale in sede di composizione.

Non un album “epocale”, dunque, ma un album, il loro decimo, onesto, sincero e positivo, con il quale festeggiano venticinque anni di carriera tirando probabilmente una riga sul loro passato e preparandosi ad un futuro tutto da ipotizzare e da creare. Dopodichè… e se fossero proprio gli artisti rock, nelle loro varie declinazioni, ad iniziare a produrre musica assimilabile al pop, e magari anche di un certo livello?

(Roswell Records/RCA/Sony Music, 2021)

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