Elisa De Munari: perché in Italia si può (e si deve!) parlare di Blues, anche al femminile

(Raffaella Mezzanzanica)

Elisa De Munari è laureata in Dams Musica, diplomata in contrabbasso classico e tradizioni musicali extraeuropee, nello specifico in sitar. Ama follemente il Blues e, da musicista si esibisce come Elli de Mon, chitarra, grancassa, rullante, sonagli, suoni saturi e psichedelia indiana. Elli de Mon è una “one woman band”. Quando ne ha avuto bisogno, quando si è trovata a un “bivio” (“crossroad”) come Robert Johnson, non ha esitato un attimo ed ha viaggiato da sola, lottando e distruggendo i suoi demoni.

A febbraio 2020, ha pubblicato il libro Countin’ the Blues. Donne Indomite, in cui racconta la storia del Blues da donna, parlando delle donne forti, sexy, aggressive che hanno vissuto il Blues e l’hanno interpretato, cantato e suonato anche meglio degli uomini.

In questa intervista ho chiesto a Elisa di raccontarmi la sua esperienza come scrittrice e come artista, soprattutto in un momento così particolare come quello che stiamo attraversando a causa della pandemia di Covid-19.

Ne sono nate riflessioni sul panorama musicale italiano e, un’importante considerazione: in Italia si può ma, soprattutto, si deve parlare di Blues, anche al femminile.

D.: Chi è Elisa Munari? Raccontami un po’ di te e della tua grande passione per la musica.

E.d.M.: Ciao! Io sono Elisa. Nella vita sono principalmente una musicista, suono e insegno musica. Questa passione è nata da bambina. A 6 anni Babbo Natale mi regalò una tastierina, che divenne il mio gioco preferito. Poi negli anni la musica è diventata il mio rifugio. Ho superato i brufoli e la paranoia dell’adolescenza grazie al punk, allo stoner, al rock in generale. Non sarei sopravvissuta senza, ne sono sicura. Quindi la musica è diventato il mio canale preferenziale per esprimere le cose più importanti che ho da dire.

D.: Tu hai dedicato e continui a dedicare la tua vita alla musica, sia come artista che come studiosa e scrittrice. Quando ci siamo sentite, una delle cose che mi sono rimaste impresse e che condivido in pieno è il fatto che “in Italia manchi una vera e propria cultura della musica”. C’è anche di più: sembra che la musica non sia nemmeno considerata una forma d’arte al pari di altre. Concordi con questa visione?

E.d.M.: Certo. In Italia non si investe nella cultura. Il lockdown ha rivelato, in tutta la sua drammaticità, come chi operi in questo settore debba contare solo su se stesso. La musica, al contrario di molti altri Paesi europei, viene vista come un hobby o come uno pseudo-lavoro per chi non ha voglia di lavorare. Pensiero che esprime la pochezza di chi lo dice, perché dietro ad un musicista ci sono anni ed anni di studio e dedizione. La cosa che più mi brucia è che non esiste un’educazione musicale di base nella scuola pubblica. La musica entra solo alle medie, con dei programmi vetusti assolutamente anacronistici che fanno passare a chiunque la voglia di approfondire questa arte magnifica. Di conseguenza non vengono dati i mezzi per poter codificare quello avviene oggi e, cosa grave, quello che è avvenuto nel passato. Alcuni tipi di musica, come quella classica o quella jazz, sono appannaggio di pochi, ossia di quelle famiglie sensibili che decidono di pagare di tasca propria l’educazione dei propri figli. Ma non tutti possono permetterselo. Negli altri Paesi europei si comincia a fare musica nei nidi e crescendo nelle scuole pubbliche viene data la possibilità di studiare uno strumento sin dalla tenera età. Non solo: la storia della musica è considerata al pari di materie importanti come la matematica, le lingue. Un individuo che viene formato è in grado di scegliere: scegliere se ascoltare o meno la musica che gli viene propinata dai media, sentire se la classica o il jazz gli piacciono…insomma può capirli e poi in seguito decidere se abbracciarli o meno. Da noi questa scelta è negata in partenza. Non puoi amare qualcosa che non conosci. Ho avuto allievi che schifavano qualsiasi cosa non fosse pop. Alla fine dell’anno eseguivano Mississippi John Hurt…Vorrei che tutti potessero avere questa possibilità: capire in che contesto vivono, essere esposti a modelli diversi. Forse anche l’Italia comincerebbe ad esportare buona musica e a capire l’arte per cui è conosciuta in tutto al mondo ( e paradossalmente non da noi).

D.: Lo scorso febbraio hai pubblicato “Countin’ the Blues. Donne Indomite”, un vero e proprio “concept book”. Come ti è venuta l’idea di scrivere questo libro?

E.d.M.: Dovevo discutere di blues in una scuola. Mi sono detta: no, figurati se posso  parlare delle dodici battute, del I/IV/V grado a degli adolescenti. Meglio andare sulla storia della civiltà afroamericana e soprattutto parlare di donne. Ho cominciato a fare ricerche bibliografiche e, con mio grande stupore, ho trovato ben poco. Si parla sempre del blues degli anni 20 e delle protagoniste che lo hanno cantato come un fenomeno prettamente commerciale, orchestrato dalle menti bianche per cavarci un sacco di soldi. In realtà leggendo i testi si scopre che queste artiste hanno avuto un fegato enorme nel portare a galla temi scottanti, quali l’abuso, la violenza, il bisogno di controllare il proprio corpo. In più ho trovato dei pezzi bellissimi, che non vengono mai citati nei libri o nei manuali di chitarra. E da lì mi sono detta…perché non tentare di fare un libro che parli di tutte queste cose?

D.: “Countin’ the Blues”, ne abbiamo parlato, è un libro unico nel suo genere, soprattutto in Italia. E’ scritto in italiano, da un’artista italiana, su un genere musicale di tradizione americana e, per molti, totale appannaggio degli uomini. La ricerca di materiale a supporto sarà stata difficilissima. Come l’hai svolta?

E.d.M.: Biblioteche universitarie soprattutto americane. Molti articoli accademici, la maggior parte in inglese, alcuni in francese. Libri americani, uno fondamentale è stato Blues Legacies di Angela Davis, che cito spesso nel mio libro. E poi i dischi: vecchi vinili, 45 e 78 giri.

D.: Come hai scelto le protagoniste del tuo libro (sia quelle storiche che quelle di oggi)?

E.d.M.: Per quanto riguarda quelle storiche sono andata per giusto personale e per l’importanza cruciale che hanno avuto, sia essa legata strettamente alla musica che a temi politici. Per quanto riguarda quelle attuali sono praticamente tutte amiche o persone con cui ho condiviso il palco. Ho voluto scegliere appositamente artiste lontano dalla scena blues, l’unica che in parte lo suona sono solo io. Le altre arrivano dal punk, dalla sperimentazione, dal rock, dal pop, dal jazz. Ma hanno tutte in comune un certo spirito forte e ribelle, che le accomuna al blues. Inoltre ho cercato di fare vedere come certe problematiche sollevate dalle artiste afroamericane degli anni 20 siano molto attuali e ci riguardino ancora tutte , dalle più giovani alle più mature, dagli ambienti più fighetti a quelli più marci.

D.: Mentre scrivo queste domande sto ascoltando i brani “Saint Judas” tratto dall’album “Motherland” di Natalie Merchant, un’artista da sempre, sottovalutata. La stessa Natalie Merchant interpreta il brano “Sit Down, Sister”, parte della tradizione americana e interpretato anche da Sister Rosetta Tharpe. Non posso fare altro che pensare: “Questo è Blues interpretato da una donna ed è semplicemente meraviglioso”. Perché molti pensano ancora che le donne non capiscano nulla di musica e che non possano avvicinarsi a certi generi musicali?

E.d.M.: Fa parte del discorso culturale di cui parlavo prima. Non poter studiare musica dà adito a certe idee. E inoltre molti non si sono mai posti il problema che per le donne è sempre stato difficile accedere a mondi che non fossero quello della casa e della famiglia. Per secoli il solo mestiere a cui potevano aspirare le donne è stato quello della badante, della maestra e in generale dei lavori legati alla cura dell’altro. Ovvio che nei libri di storia si parla poco di noi. Strada ne è stata fatta tanta nell’ultimo secolo, ma non basta. Dobbiamo educare bene le nuove generazioni affinché certi modelli culturali non vengano più tramandati.

D.: Nel libro scrivi: “Che cosa sia il blues è una domanda che spesso non trova risposta. Ci sono decine di definizioni e ognuna prende forma in base all’analisi che se ne vuole fare sia essa storica, tecnica, biografica”. Che cos’è e che cosa rappresenta il Blues per Elisa De Munari?

E.d.M.: Non mi sono mai soffermata troppo a dare dei confini alla parola blues. Anche nel libro tento di far capire che il blues è un atteggiamento nei confronti della vita. Per questo non mi piace quando viene troppo ghettizzato ad una determinata forma e genere. Discuterne troppo in maniera accademica è fuorviante. Anche io non suono propriamente blues, semplicemente lavoro con quel tipo di sensazioni. Perché le sue radici si trovano in posti diseredati, è un ronzio, è quel vecchio ipnotismo ritmico al valico tra magia e realismo. Per questo non potrà mai morire, cambierà sempre pelle e rinascerà…per me sono blues cose anche molto diverse: Lydia Lunch, Chelsea Wolfe, Adia Victoria, Missy Elliott. Il blues lo sento come una musica politica. Perché attraverso la ricerca e la disperata riconquista delle proprie radici da parte del popolo afroamericano, vieni messo di fronte alla storia. E interrogarsi sulle propria  di identità è inevitabile.

D.: Che cosa pensi sarebbe successo se “Countin’ the Blues”, in Italia, lo avesse scritto un uomo?

E.d.M.: Mah non lo so. Credo solo che difficilmente un uomo avrebbe potuto scriverlo. Semplicemente perché a lui certe cose non capitano….o comunque ha meno probabilità di esperire certi tipi di vissuti.

D.: E ora parliamo di Elisa De Munari artista, anzi di Elli de Mon, una vera e propria “one woman band”. Raccontaci di come hai scelto il tuo pseudonimo e delle tue diverse esperienze in ambito musicale “in giro per il mondo da sola, a combattere i tuoi demoni”.

E.d.M.: Elli de Mon è una storpiatura del mio nome originale (De Munari) e contemporaneamente un omaggio ai personaggi malefici come Crudelia Demon. I demoni mi stanno simpatici. Scavano dentro di te e ti spingono a tirare fuori le parti più nascoste, quelle più paurose. E ti obbligano a farci qualcosa di buono. Nella vita sono passata attraverso diversi tipi di musica, mi sono diplomata in contrabbasso, ho studiato musica indostana…ma ad un certo punto ho vissuto una fase in cui mi sembrava si arenasse tutto. Progetti di band, la musica classica della quale non ne potevo più… e allora mi sono detta : chi mi ama mi segua! E nessuno mi ha seguito. Di conseguenza ho preso il mio fardello e ho cominciato a fare da sola, ispirata da personaggi come Son House e Fred McDowell . Loro mi hanno dato coraggio. E così è partita la mia avventura in solitaria. Nessuno con cui litigare, agilità negli spostamenti, decisioni facili da prendere. Suonare da soli non è semplice, soprattutto a livello fisico (monta e smonta gli strumenti, guida, dormi poco ecc..), però la libertà che hai è impagabile.

D.: Quanto sono state importanti queste esperienze e quanto ti hanno cambiata?

E.d.M.: Esperienze importanti. ti fanno capire che farsi troppe paranoie è inutile, che spesso basta solo lasciarsi andare e le cose succedono.

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