Dream Theater – Images and Words

(Andrea Romeo)

Capita, parlando di musica, di aver ascoltato qualche volta la definizione di progressive-metal, e dunque val la pena di ragionare sul fatto che, quest’album, datato 1992, sia stato il primo, o comunque uno dei primi ad offrire, a questo termine, un significato di senso compiuto.
Tutto nasce, sette anni prima, presso il Berklee College of Music di Boston, Massachusetts, ad opera di tre studenti: John Petrucci, chitarrista newyorkese, di origini italiane, Mike Portnoy, batterista da Long Beach, John Myung, bassista nato a Chicago da genitori coreani.
Con il nome di Majesty iniziano a suonare e comporre, soprattutto quando vengono affiancati dal tastierista di Long Island Kevin Moore e dal cantante Chris Collins.

Giubilato rapidamente Collins, a causa di prestazioni live non soddisfacenti, e mutato il nome in Dream Theater, su suggerimento del padre del batterista, i quattro giovanissimi musicisti si sono messi in cerca di una voce che potesse adattarsi alle le loro creazioni, già interessanti e sufficientemente complesse.

Lo individuano in Charlie Dominici, proveniente da Brooklyn, con cui realizzano il debut album, When Dream and Day Unite, uscito nel 1989, certamente un buon album, che lasciava intravedere interessanti prospettive, ma che non era ancora ciò che la band desiderava davvero; ed il problema era, ancora una volta, quello della voce.

Impiegarono due anni, per risolvere quello che era diventato per loro un vero e proprio rebus quando, finalmente, nel 1991 reclutarono il cantante canadese James LaBrie, proveniente dalla band hair metal dei Winter Rose.

Quello che non sapevano, e che sicuramente all’epoca non immaginavano neppure, era la dimensione del salto in avanti che erano in procinto di compiere quando, nell’ottobre del 1991, entrarono nei Bear Tracks Studios, Suffern (New York), dove rimasero per un paio di mesi.

Images and Words vide la luce nel mese di luglio del 1992 e cambiò, radicalmente e per sempre, la percezione di quel fenomeno musicale che aveva ormai assunto il nome di progressive-metal.

L’arpeggio iniziale di Pull Me Under, l’ingresso di batteria e basso, aprono scenari del tutto nuovi perché avvicinano due mondi quasi mai considerati neppure limitrofi: la melodia iniziale cede il passo ad una sfuriata metal cui fanno seguito cambi di ritmo improvvisi, ed eseguiti a velocità vertiginose, insomma qualcosa di decisamente innovativo e mai sentito prima, neppure da parte di band pur riconosciute come particolarmente “acrobatiche”.

Il pregio fondamentale di questo lavoro, al netto di tecnica, composizione ed arrangiamenti, è la sua “cantabilità”: la band è ancora “giovane”, parliano di ventenni, non si è ancora distaccata dalla forma canzone nè quindi si è avventurata lungo quel percorso che la condurrà, nel ventennio successivo, a rendere i propri pezzi estremamente più lunghi, complessi, contorti, arrivando a creare numerose controversie anche fra i fans più accaniti.

Progressive e metal trovano quindi, nelle otto tracce contenute nell’album, una sintesi che apre di fatto scenari nuovi, ma offre contemporaneamente diversi spunti che daranno adito, come detto, a confronti e discussioni, alcune delle quali si protrarranno negli anni a venire.

I contrasti più frequenti riguarderanno la vera, o presunta, “freddezza” esecutiva della band, il suo eccessivo perfezionismo, ma anche dettagli più strettamente “tecnici”, ad esempio il basso di John Myung che risulta, a tutt’oggi, difficilmente intelligibile, all’interno del mix finale, non è chiaro se per scelta del musicista, della band, o di entrambi, oppure il perché, Kevin Moore, sia uscito così rapidamente dal gruppo, e cioè dopo la registrazione di Awake, nel 1994.

Altre discussioni riguarderanno l’evoluzione chitarristica di John Petrucci, secondo alcuni una sorta di involuzione nella quale l’espressività parrà sempre più inversamente proporzionale alla velocità di esecuzione, e la voce di James LaBrie che, negli anni, subirà un lento ma inesorabile declino, ponendo seri dubbi sulla sua funzionalità rispetto alla riuscita dei brani, accettabili in studio ma, dal vivo, con incertezze sempre maggiori.

I Dream Theater erano, e sono ancora oggi, una band molto divisiva, amata, anzi, adorata, da una fetta di fans irriducibili, detestata da altri, e questo per i motivi succitati, ma comunque sempre messa in discussione: l’uscita di Mike Portnoy, nel 2010, sostituito da Mike Mangini, non ha fatto altro che rinfocolare ulteriormente queste polemiche.

Resta il fatto che Images and Words era e resta uno dei vertici creativi della band, un album che, a quasi trent’anni dalla sua uscita, conta un grandissimo numero di ammiratori sia fra i vecchi che fra i nuovi fans, un lavoro divenuto modello imprescindibile per una elaborazione musicale nuova, mai sentita, e della quale ha determinato i criteri.

Pull Me Under, la ballad Another Day, Take the Time, ed il suo prog riveduto e corretto, l’emotiva Surrounded, Metropolis–Part I: “The Miracle and the Sleeper”, se non una “hit” in senso stretto, certamente un brano fondamentale, ed ancora Under a Glass Moon, Wait for Sleep, con un Moore sugli scudi, e la conclusiva Learning to Live, il primo accenno di suite e, forse, il brano che innesca ciò che, i Dream Theater, diventeranno anni dopo, non sono otto semplici brani, ma otto progetti che vanno ad inquadrare una prospettiva, nuova, e di lungo respiro.

Un album che è, contemporaneamente, punto di arrivo, di svolta e di partenza per un genere che, da quel momento in poi, subirà un’evoluzione che andrà ben oltre le intenzioni di chi l’ha innescata.

(ATCO/Atlantic Records, 1992)

https://youtu.be/mipc-JxrhRke
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