Dominic Miller – Absinthe

(Andrea Romeo)

Ci sono musicisti che nascono e sono destinati quasi per elezione a trovarsi al centro della scena, protagonisti pressochè inevitabili perché una serie di fattori, che includono il carisma, la propensione ad esibirsi, anche un certo ego perché no, li portano ineluttabilmente a posizionarsi sotto le luci dei riflettori.

Ce ne sono invece altri che, pur avendo enorme talento, doti compositive ed esecutive indiscutibili, grande capacità di interagire anche con star di prima grandezza, tendono per natura o per carattere a stare un passo indietro, a volte anche due, e sono tuttavia considerati musicisti fondamentali, necessari, i quali, nell’ambito di una produzione, garantiscono che il team radunato intorno ad un progetto lavori al meglio.

Dominic Miller, chitarrista nato ad Hurlingham, Argentina, nel 1960, è una figura che rappresenta esattamente questo secondo modello di artista: un protagonista senza essere protagonista, un artista decisivo, ma senza volersi porre in primo piano, e lo è stato sin dall’inizio della propria carriera: una volta si chiamavano turnisti poi, per quella anglofilia che tende a rendere più importante un concetto, sono diventati session men ma, concettualmente, erano e restano quei musicisti che, pur non essendo quasi mai accreditati quali membri stabili di una band e che, il più delle volte, neppure appaiono nei credits dei brani in cui hanno suonato, ne hanno però concretamente contribuito a creare il sound, il mood, lo stile.

Dopo aver frequentato la London’s Guildhall School of Music & Drama inizia a suonare, nei primi anni ’80, ma il salto di qualità lo compie nel 1989 quando viene coinvolto nel team che lavora con Phil Collins all’album …But Seriously, anche se già l’anno prima aveva fatto capolino ai piani alti del music business, collaborando con i Level 42 alla realizzazione di Staring at the Sun: da questo momento in poi, la serie di collaborazioni che lo vedrà protagonista sino ai giorni nostri mette in fila nomi di spicco: Chris Botti, The Chieftains, Vinnie Colaiuta, Manu Dibango, Manu Katchè, Ronan Keating, Chuck Loeb, Katie Melua, Youssou N’Dour, The Pretenders, Tina Turner, Paul Young

Ma la partnership più importante, iniziata nel 1991 con l’album The Soul Cages, e che prosegue ancora oggi, è indubbiamente quella con Sting, che lo ha non a caso definito “My right and left hand, hands that breathed life to everything my clumsy fingers can’t play…”, e con il quale ha scritto, tra le altre cose, la hit Shape of my Heart.

Oltre trent’anni di carriera dunque, durante la quale non ha mai però dimenticato di ritagliarsi alcuni spazi personali nei quali mantenere i contatti con la propria terra: dal 1984 ad oggi, una quindicina di album come solista, nei quali ha esplorato il latin jazz, la musica sudamericana in senso ampio, ed ha anche cercato punti di contatto con la musica classica (Shapes, nel 2003), sino al suo ultimo lavoro in ordine di tempo, Absinthe, pubblicato con l’etichetta tedesca ECM nel 2019.

Un album, Absinthe, che dimostra ancora una volta l’indole di questo musicista, capace di fare gruppo, di coinvolgere altri artisti, di creare una musica che si può definire d’insieme ed in cui la chitarra non è, né vuole mai essere, la protagonista, ma semplicemente un primus inter pares: nelle dieci tracce contenute in questo lavoro non si trovano assoli, passaggi in cui la sei corde acustica si erge a protagonista, tutt’altro.

Il protagonista vero è, di fatto, Santiago Arias con il suo bandoneon, attorno al quale la chitarra di Miller, le tastiere di Mike Lindup, il basso di Nicolas Fiszman e le percussioni di Manu Katché riescono a creare un tappeto di suoni mai eccessivi, sempre molto bilanciati, equilibrati, ricchi di pathos, di passaggi emotivamente coinvolgenti e di quella malinconia che pervade l’intero lavoro.

In un’intervista rilasciata nel 2019 ad Alceste Ayroldi di Musica Jazz, il chitarrista argentino ha spiegato l’origine del nome di questo album: “… il titolo dell’album, così come anche il tema portante dello stesso, deriva dalla mia passione per la pittura impressionista francese. Mi appassionano l’uso del contrasto e una certa vena «psichedelica» e ho voluto rendere omaggio a questa corrente che ha influenzato anche la mia visione della musica. L’assenzio è ovviamente un liquore, ma non solo questo: è anche uno stato della nostra mente, così come lo descrisse nel suo ritratto Edgar Degas.” e questa descrizione calza davvero a pennello perché, a partire dalla title track che apre le danze, tutti i brani hanno uno svolgimento che attraversa diversi momenti, alcuni onirici, altri più riflessivi, altri ancora decisamente malinconici, insomma una gamma di sentimenti e di sensazioni, molto intime, che l’attitudine dei cinque musicisti riesce a tradurre in cascate di suoni.

Absinthe, che definisce i canoni dell’intero lavoro, una dolente Mixed Blessing, la romantica e crepuscolare Verveine, La Petite Reine, omaggio alla bicicletta ed al suo moto circolare, Christiania, dedicata alla comunità hippie di Copenhagen, Etude, ispirato ai compositori francesi e ad Heitor Villa-Lobos, Bicycle, altro brano di movimento, arioso e che ispira libertà, Ombu, omaggio alle radici sudamericane, Tenèbres, dall’andamento felpato e guardingo, ispirato al proprio gatto, sino alla conclusiva Saint Vincent, omaggio al chitarrista camerunense Vincent Nguini, a lungo partner musicale di Paul Simon, sono le singole parti di una composizione che, pur non catalogabile come vero e proprio concept album, racchiude una unità espressiva ed una coerenza tematica che ne fanno un lavoro coeso ed armonico; le sfumature traspaiono da un approccio essenziale, per certi versi minimalista, laddove gli interventi dei singoli strumentisti sono davvero “leggeri”, fatti in punta di dita.

Esattamente come un bicchiere di assenzio questo lavoro si sviluppa come momento di meditazione, di incontro con sé stessi, una pausa in cui la mente può non solo rilassarsi ma rimanere con sé stessa, astrarsi dal mondo reale ed entrare in un contesto a metà strada tra il sogno ed il ricordo, in cui recuperare frammenti di sé magari abbandonati, nel tempo, lungo la via.

(ECM Records, 2019)

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