Clouds Taste Satanic – Tales Of Demonic Possession

Clouds Taste Satanic prende forma a Brooklyn, New York, nel 2013. Oggi dopo otto album e quattro EP, i
sorprendenti The Satanic Singles Series, la band ha questa line-up: Steven Scavuzzo (guitars) Brian Bauhs
(guitars) Sean Bay (bass) Greg Acampora (drums). Ne facevano parte Christy Davis (drums 2013-2015) e
David Weintraub (guitars 2013-2016). Musicisti beyond-the-darkness che si sono costruiti una
reputazione auto-flagellante tra le fiamme dell’avanguardia metal. Uno sviluppo paziente e deliberato,
creato da un suono unico che fonde lo stoner rock soggiogando degenerati riff heavy. Un dogma
atmosferico multisensoriale, un apocalittico post-doom strumentale capace di trasmettere il messaggio
senza la possibilità di avere un cantante che comunica all’ascoltatore le intenzioni del gruppo. Tales Of
Demonic Possession mantiene lo stato mentale allucinato e crea un’ascolto molto intenso.

Di tanto in tanto rompe il ritmo, immergendosi in impulsi cerebrali ed in alcuni passaggi onirici di grande effetto, poiché la musica è assolutamente stellare come la follia risorta dall’Inferno. Un linguaggio sonoro feroce e orgiastico, l’avanzamento esteso e l’oscura psichedelia di fondo si uniscono a cadenze da cavalcata
diabolica, conferendo ai brani un aspetto minaccioso per tormentare gli aspetti più profondi della psiche
umana.
Se siete cultori dell’Underground Heavy Rock, risalente all’Età dell’Oro, dovreste unire gli australiani Ash
con i canadesi Cybernaut riversando un denso strato di cromo, applicato a monolitici oggetti metallici
aumentando così la durezza superficiale e intrinseca. Oppure abbinare l’atmosfera d’ansia e perversione
degli Amon Duul includendo le giostre galattiche nei Tangerine Dream, appena sotto la fuligginosa, lenta,
lugubre esasperazione dei groove macabri dei Black Sabbath. Magari i primitivi Velvett Fogg da
Birmingham, rielaborati in mezzo a Melvins, Sleep, Earth, Sunn 0))) per mandare in coma il viscido
sottofondo e le morbose progressioni “astronomydomine” dei Flaming Lips.

Un doppio album che regala quattro brani da venti minuti ciascuno. Una scorreria d’assalto notturna
corrosa all’ombra della luce e dalla schiuma arcaica, sino al fato mortale. Gli alti Dei sorreggono il
magma con le mani e le lacrime cadono evaporando nel pesante calore ricorrente. Il diadema è Sun Death
Ritual, avvolto da opaca nebbia rombante. Passaggi iper-titanici e ultra-loud consegnano un baccanale
plutonico che raggiunge lo zenit artistico dell’opera. Abitudine e immersione alla teologia immorale
trascina l’ascolto in una sospensione ambientale di notevole grandezza. Le chitarre assurgono vortici
convulsi e psicodrammi amplificati, trovando la trance magniloquente in un territorio colossale e
inflessibile. Penso che ai piedi del vecchio “The Hermit”, nella sua view in half di Zeppeliniana memoria,
possa starci, senza sfigurare, il teschio delle arti visive dei Branca Studios. Al posto del cane nero.

(Majestic Mountain Records)

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