Carlos Santana – Lotus

(Andrea Romeo)

Nel 1974 Carlos Humberto Santana Barragán era già considerato una star internazionale: nel 1967 aveva messo insieme la sua prima band, insieme a Tom Fraser, rhythm guitar, Sergio “Gus” Rodriguez, bass guitar, Gregg Rolie, Hammond organ, lead vocals, Michael Carabello, percussion e Danny Haro, drums; due anni dopo, la spettacolare performance al Festival di Woodstock, insieme a Rolie, Carabello ed ai nuovi arrivati David Brown, bass, José “Chepito” Areas, timbales, congas, percussion, trumpet e l’appena ventenne Michael Shrieve, drums.

Nel medesimo anno l’uscita del suo primo album omonimo, cui seguirono Abraxas, Santana III, Caravanserai, Welcome e Borboletta che ne fecero un artista di primissimo piano, entrato nella storia della musica rock già solamente dopo pochissimi anni di una carriera che sarebbe poi stata pluridecennale.

La performance di Woodstock fu, di fatto, il suo primo “live”, ma venne pubblicata ufficialmente, nell’ambito della Woodstock Experience, solamente nel 2009; ed allora la testimonianza della potenza, dell’intensità, dell’energia del chitarrista messicano nato ad Autlàn Jalisco, durante quel periodo, fu rappresentata per anni dal suo primo album dal vivo, Lotus, registrato all’Osaka Kōsei Nenkin Kaikan di Osaka, Giappone, il 3 e 4 Luglio del 1973, durante la tournèe di Caravanserai.

Sul palco di quel tour e del relativo album, insieme al chitarrista messicano, l’ennesima band stellare, composta da Leon Thomas, maracas, vocals, Tom Coster, Hammond organ, electric piano, Yamaha organ, Richard Kermode, Hammond organ, electric piano, Doug Rauch, bass, Armando Peraza, congas, bongos, Latin percussion, il fido José “Chepito” Areas, timbales, congas, Latin percussion ed il fenomenale Michael Shrieve, drums, Latin percussion e, per l’occasione, una scaletta che racchiude quattro anni di attività, attraverso brani che sono diventati dei classici: Going Home, A-1 Funk, Every Step of the Way, Black Magic Woman, Gypsy Queen, Oye Como Va, ed ancora Yours is the Light, un accenno alla straordinaria Stone Flower di Antonio Carlos Jobim, Waiting, Castillos De Arena, divisa in due parti, uscita anche dalla penna di Chick Corea, Samba de Sausalito, la suite di Incident at Neshabur, Se a Cabo, Samba Pa Ti, mambo di Tito Puente, Toussaint L’Overture, insomma quasi il meglio della sua produzione dell’epoca, se si escludono brani come Evil Ways, Jingo e Soul Sacrifice poi recuperati oltre trent’anni dopo nel già citato album live registrato durante la tre giorni di Woodstock.

Blues, jazz, rock, latin, mescolati, rielaborati, distillati e riproposti con una grinta, un’energia ed una passione che, negli anni, non abbandoneranno mai, non solo le composizioni del chitarrista messicano, ma soprattutto la sua attitudine ed il suo atteggiamento, doti che trasmetterà alle decine di musicisti che, in oltre cinquant’anni di carriera, transiteranno nella band che porta il suo nome.

Inutile dire che la chiave principale di questa intensità si trova essenzialmente nelle percussioni, cuore e motore dello show, non solo ritmico perché ci sono brani in cui fungono letteralmente da vero e proprio supporto melodico ed armonico, grazie ad un trio, Shrieve, Areas e Peraza che non è affatto esagerato definire “delle meraviglie”.

I punti nevralgici dell’album sono senza dubbio i due trittici proposti ovvero Black Magic Woman, Gypsy Queen, Oye Como Va, il primo, ed Incident at Neshabur, Se a Cabo e Samba Pa Ti, il secondo, sequenze che prendono per mano l’ascoltatore e lo trascinano in un vero e proprio vortice di suoni, ritmo e sensazioni.

Santana è insieme protagonista, con la sua chitarra assolutamente riconoscibile per il tocco, lo stile ed il timbro sonoro, ma anche comprimario, nel momento in cui cede il proscenio ai suoi compagni, musicisti che non solo sono tecnicamente fuori dalla norma, ma trasmettono un gusto ed una capacità di interpretare i brani, del tutto coerenti con l’approccio del loro leader; il risultato finale non è, come si potrebbe erroneamente pensare, una scontata somma di solisti quanto invece una totale amalgama musicale, fluida, dinamica, tanto articolata quanto spontanea ed istintiva, all’interno della quale la tecnica è completamente al servizio della musicalità.

Del resto lui stesso aveva affermato, in questo senso, che: “Un buon assolo parte con un tema, qualcosa che puoi cantare; poi tento di andare dove andava Coltrane: qualcosa che magari la testa non capisce, ma il cuore sì.

Lotus è dunque, prima di tutto una festa, in cui Carlos Santana, dopo un periodo di forte crisi spirituale, riprende in mano la propria vita, grazie a due album in studio come Caravanserai e Welcome e poi grazie a questa rinnovata capacità di esporsi, di stare davanti ad un pubblico, nello specifico quello giapponese, tanto competente quanto non facile perché, probabilmente, più avvezzo a sonorità rarefatte, meno prorompenti e meno coinvolgenti dal punto di vista emotivo.

Da qui in poi il chitarrista sposterà sensibilmente l’obbiettivo delle proprie composizioni e le prime tracce di questa sostanziale mutazione si possono già cogliere nella torrenziale Incident At Neshabur: una durata inconsueta, ben quindici minuti, per cui lo si può tranquillamente considerare un brano che, anche solo per la quantità di variazioni ritmiche e melodiche contenute, tende decisamente verso quella fusion a cui Santana approderà più compiutamente verso la fine degli anni ’70.

Ma la band che ha realizzato Lotus era ancora, in tutto e per tutto, ed al netto dei sostanziali cambiamenti nella line-up, quella brigata di ragazzi entusiasti e (ma solo allora) quasi spaesati, che si presentarono davanti ad un pubblico sterminato, stipato sul terreno della fattoria di Max Yasgur a Bethel (NY), quattro anni prima, pronti a giocarsi tutto in una notte dando il massimo possibile: a distanza di quasi cinquant’anni, questo disco, rieditato più volte con l’aggiunta di qualche “pezzo” mancante, suona ancora fresco e brillante, esattamente come allora.

(Columbia, 1974)

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