Camel – Moonmadness

(Andrea Romeo – 14 aprile 2020)

La storia del progressive rock, forse più che per altri generi musicali, è costellata di episodi, di strane congiunzioni ma, soprattutto, ha un rapporto strettissimo, e decisivo, con il concetto di tempo.
Perché, e gli esempi sono frequenti e di non poco conto, ci sono album che, pubblicati in un momento differente, ed in condizioni differenti, molto probabilmente avrebbero avuto un esito, ma soprattutto un riscontro immediato, assai diverso da quello, magari postumo, che la sorte, il pubblico e la critica, hanno riservato loro.

Il 1976, peraltro, è un anno delicatissimo: i Genesis tentano di uscire dall’era-Gabriel, ed improvvisano il Collins cantante: l’operazione riuscirà ma, da lì in poi, non sarà più la stessa cosa; gli Yes stanno lentamente cambiando pelle e, già con Going for the One, uscito l’anno dopo, paleseranno un progressivo calo di ispirazione che li condurrà ai problematici anni ’80 e ’90; lo stesso discorso vale per i Van Der Graaf Generator di Peter Hammill che, addirittura, si sciolsero nel 1978 e per  i Caravan, in caduta libera dopo la pubblicazione, nel 1971, del loro capolavoro In the Land of Grey and Pink. Se a ciò aggiungiamo le liti interne che stavano deteriorando la vicenda artistica ed umana dei Pink Floyd, la direzione verso il folk-rock imboccata dai Jethro Tull, l’ipertecnicismo esasperato di EL&P ed, in contemporanea, l’arrembante ascesa della scena punk, il quadro che si delinea, rispetto alle sorti del prog classico, non è certo dei più favorevoli.
Ecco perchè, in un contesto del genere, ci sono band che riescono, proverbialmente, a fare la cosa giusta, ma nel momento più sbagliato possibile.

I Camel erano reduci da una doppietta davvero notevole: dopo un esordio interlocutorio, nel 1971, con l’album omonimo, avevano infilato due lavori che avevano dato loro visibilità e credibilità, ovvero Mirage, uscito nel 1974, e lo strumentale Music Inspired by The Snow Goose, pubblicato nel 1975. Due album certamente differenti, ma che avevano contribuito non poco a plasmare il suono e l’attitudine compositiva della band di Guildford, ormai pronta per piazzare, se possibile, il lavoro definitivo, quello che li avrebbe dovuti condurre, ragionevolmente, a condividere, con i succitati gruppi, la prima fila del progressive rock inglese.
L’album, in realtà, ce l’avevano eccome, ed era anche un gran bell’album, ma il tempo era drammaticamente scaduto.

Moonmadness uscì, appunto, nel 1976, e fu, tra l’altro, un notevole successo, pur essendo l’ultimo album comprendente la formazione originale (Andrew Latimer: chitarra, flauto, voce; Peter Bardens: tastiere, voce; Doug Ferguson: basso, voce ed Andy Ward: batteria, percussioni, voce), ma fu anche, di fatto, il canto del cigno per un gruppo che, da lì in poi, navigò a vista per anni tra cambi di formazione, split e reunion, uno scioglimento durato dieci anni cui fece seguito una rinascita, ed una attività, che è durata, instancabilmente, fino ai giorni nostri.

Restano però due fatti del tutto evidenti: Moonmadness non ricevette affatto il plauso che meritava ed i Camel rimasero per sempre intrappolati in una posizione di semi-retrovia, ad un passo dai grandi, passo che però non riuscirono mai a compiere.

Certo con i se e con i ma… tuttavia si possono, serenamente, fare delle ipotesi, e trarre delle conclusioni plausibili: se Moonmadness fosse uscito tra il 1970 ed il 1973, avrebbe potuto reggere il confronto con album quali Foxtrot, Fragile, Close to the Edge, Pawn Hearts, Tarkus, Aqualung, In the Land of Grey and Pink o Three Friends? La risposta è: si, avrebbe potuto reggere il confronto, ma probabilmente non ad uguagliarli, e qui si inseriscono le valutazioni sui perché, i Camel, non riuscirono mai a fare quel passettino che li avrebbe potuti consegnare alla celebrità.

Genesis, Yes, Van Der Graaf e Jethro Tull avevano, dalla loro, oltre ad una maggior capacità di sintesi, che rendeva i loro brani immediatamente iconici, quattro cantanti, Peter Gabriel, Jon Anderson, Peter Hammill e Jan Anderson, che erano anche dei veri frontman, dei grandi scrittori di testi, ed erano dotati di voce e carisma superiori alla media.
EL&P e Gentle Giant, erano provvisti di una capacità di scrittura musicale decisamente superiore, che raggiungeva vette di complessità e virtuosismo tali da affascinare anche i non addetti ai lavori, ma soprattutto poteva, in buona parte, prescindere dalla voce.
I Caravan, dal canto loro, venivano assimilati in modo più diretto alla scena di Canterbury, scena rispetto alla quale, i Camel, vennero associati si, ma in maniera sempre più defilata; inoltre, l’aver scritto una suite come Nine Feet Underground, dava loro un credito definitivo.

Bravi, dunque, ma non abbastanza, creativi, ma non abbastanza, fantasiosi, ma non abbastanza… questa, sintetizzando molto, potrebbe essere una chiave di lettura per interpretare la vicenda di una band che, ad ogni buon conto, ha avuto il merito di ricavarsi una nicchia solida e duratura nel tempo.

Moonmadness rimane, senza ombra di dubbio, il loro album più completo e valido: tracce come Song Within a Song e Lunar Sea, scritte dalla coppia Bardens/Latimer, sono ancora oggi due meravigliosi viaggi musicali, onirici, ricchi di suggestioni, carichi di fascino e, fattore non meno importante, splendidamente eseguiti.
E, proprio per questi motivi, tutto ciò che riguarda il “…cosa sarebbe potuto essere se…”, diventa probabilmente secondario e, fondamentalmente, superfluo.

(Decca, 1976)

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