BPMD – American Made

(Andrea Romeo)

E’ un momento storico difficile per tutti, in particolar modo per gli artisti, che non si possono esibire e vivono una situazione assai frustrante: vorresti imbracciare il tuo strumento, saltare su un palco, dare la carica al tuo pubblico, ma adesso non lo puoi fare, e quindi… come impiegare il tempo disponibile? In parecchi, in realtà, hanno colto l’occasione per mettersi a scrivere, lavorando a nuovi brani ed a nuovi album, facendo ciò in un contesto per certi versi abbastanza irreale e, tutto sommato, con delle tempistiche veramente inusuali. Ed è successo che, ohibò, hanno scoperto che ci si poteva divertire, anche in una situazione così particolare, restando nei propri studi, componendo “at home”, scambiandosi “files”, confrontandosi “on-line”, utilizzando quindi una modalità di lavoro “in remoto” che, impiegata occasionalmente in altri periodi, è oggi divenuta quella principale; il tutto, tra l’altro, senza pressioni o vincoli temporali di sorta.

Bobby “Blitz” Ellsworth (Overkill), Mike Portnoy (… various bands…) e Phil Demmel (Machine Head) hanno perciò raccolto l’invito di Mark Menghi (Metal Allegiance) e… beh, siamo amici, ci conosciamo da un sacco di tempo, siamo praticamente fermi per causa di forza maggiore… perché non proviamo a svagarci?
Detto, fatto: se vuoi leggerezza e divertimento una delle cose più semplici da fare è, ad esempio, chiedersi l’un l’altro quali siano quei brani che ti sono sempre piaciuti, quelli con cui magari sei cresciuto, che ti hanno fatto sognare da ragazzo, provare a “metterli giù”, utilizzando l’esperienza accumulata negli anni e farne delle cover, esattamente come si faceva, da adolescenti, quando si entrava in sala prove.

Il singer degli Overkill ha proposto Evil, dei Cactus e Never in My Life dei Mountain, il batterista Wang Dang Sweet Poontang di Ted Nugent e Toys in the Attic, classicone degli Aerosmith, il chitarrista ex Machine Head ha portato D.O.A. dei Van Halen e Tattoo Vampire dei Blue Oyster Cult, mentre il bassista della Metal Allegiance ha proposto Saturday Night Special, dei Lynyrd Skynyrd (suggeritagli, a suo dire, dal figlio di otto anni…) e Beer Drinkers & Hell Raisers, dei texani ZZ Top.

All together, invece, hanno scelto We’re an American Band, l’inno dei Grand Funk Railroad e Walk Away, firmata The James Gang; con la tracklist così completata hanno dunque dato il via alle danze ed in pochi mesi hanno realizzato questo American Made, lavorando esattamente come fa una classica cover band: i brani sono, in linea di massima, fedeli a quelli realizzati dai loro compositori ma è chiaro che, quattro personalità così forti, non potevano davvero non farli propri, adattandoli al proprio stile e, pur senza stravolgerli, dando loro una densità decisamente differente, e spesso più “sostanziosa”, rispetto alle tracce originali.

Parliamo grossomodo di un decennio di pura musica “made in Usa” raccontato da questi quattro “ragazzacci”, provenienti da esperienze e da carriere di altissimo livello, che hanno voluto rimettersi in gioco con un entusiasmo quasi adolescenziale; in questo senso è quasi superfluo fare qualsiasi tipo di paragone con i pezzi, nelle loro versioni originali, non fosse altro che per il fatto che, le dieci band prese in considerazione, hanno avuto dieci timbri vocali, dieci approcci musicali e dieci stili esecutivi a volte davvero enormemente differenti, ai quali le caratteristiche dei quattro protagonisti, targati BPMD,non potevano, ovviamente, sovrapporsi sempre in maniera precisa. Nessun problema, però, perché questo album è nato volutamente come un divertimento, un modo per esorcizzare questo periodo difficile facendo una specie di “scappatella” nel passato, recuperando le proprie origini musicali e rendendo contemporaneamente omaggio a dieci band che hanno caratterizzato più di un decennio di musica a stelle e strisce.

Il feeling che intercorre tra i quattro amici è risultato subito evidente, e lo si percepisce sin dalla fulminante intro del brano di Nugent, che apre l’album: da lì in poi, l’ugola di Ellsworth ha iniziato ad inerpicarsi su e giù per un rollercoaster vocale davvero impegnativo, Portnoy ha sciorinato tutto il suo repertorio di drummer, adattandolo in scioltezza anche a brani decisamente “vintage” (il suo doppio pedale, sul brano dei Lynyrd Skynyrd, è una vera chicca…), la sei corde di Demmel si è divertita a spaziare con maestria all’interno del proprio assortimento ritmico e solista mentre Menghi, con il suo fido “quattrocorde”, ha conferito grande solidità, ma anche un eccellente “tiro”, alle esecuzioni.

Chi è magari un po’ più “anziano” ritroverà, riproposti in maniera brillante ed energica, dei vecchi amici che magari non ascoltava più da molto tempo mentre, chi è un po’ più giovane, avrà modo in non più di una mezz’oretta di farsi un’idea chiara di che cosa fosse il rock, negli States, nel periodo che intercorre fra i primi anni ‘70 ed i primi anni ’80 e magari, partendo proprio da qui, iniziare ad ascoltare altri gruppi, altri album, altri brani, così da poterne sapere qualcosa di più.

Che questo lavoro sia, come già detto, un album di puro divertimento, oppure una riuscita operazione commerciale, o anche solamente una specie di antidoto alla momentanea assenza di musica “live”, davvero poco importa: quello che è sicuro è che, magari con il finestrino abbassato, e sicuramente a volume piuttosto sostenuto (“play it loud” non c’è scritto, sulla cover, ma è un suggerimento implicito…), questo American Made è una vera e propria ventata d’aria fresca che spazza via le nubi dall’animo e regala considerevoli momenti di relax e di piacere, certamente graditi, specie di questi tempi.

(Napalm Records, 2020)

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