Bootsy Collins – World Wide Funk

(Andrea Romeo)

E’ un artista che, di mestiere, fa il bassista ed il cantante, ha suonato con personaggi del calibro di James Brown e George Clinton, nel suo periodo con i Parliament-Funkadelik ha costruito linee ritmiche durissime, quasi ai confini con l’heavy metal, che hanno caratterizzato in maniera significativa il suono, ed il groove, di quell’ensemble quasi mitologico; dopodichè ha sfornato un elevato numero di album, sia in altre formazioni (Bootsy’s Rubber Band, Praxis) che come solista dal 1976 sino ai giorni nostri: chi dunque meglio di Mr. Bootsy Collins può essere definito come una sorta di “rhythm machine” del funk?

Eccentrico, estroso, eccessivo, sia nel suonare che nel vestire, per non parlare dei suoi bassi dall’aspetto stravagante, il più delle volte “stellare”, sono le peculiarità che ne hanno decretato lo status di vera e propria icona funk, ed il nono album della sua carriera solista non smentisce, nel modo più assoluto, nessuna di queste caratteristiche.

Per realizzare questo World Wide Funk il folletto di Cincinnati ha chiamato a raccolta una sorta di università del ritmo, che risponde ai nomi di Stanley Clarke, Victor Wooten, Chuck D, Big Daddy Kane, Doug E. Fresh, Eric Gales, Musiq Soulchild, Buckethead, Dennis Chambers, Kali Uchis unitamente al tastierista Bernie Worrell, con cui aveva già collaborato nei P-Funk, insomma tutta gente che, oltre ad avere il metronomo incorporato, nel suonare ci mette cuore, polmoni ed anima, strappando davvero le vibrazioni da ogni dove.

Bootsy Collins is performing at the 2007 BET Awards in Los Angeles.

Alla tenera età di sessantasei anni (che nel frattempo sono diventati quasi settanta), questo eterno ragazzo non teme affatto di confrontarsi con ciò che è divenuto, il funk, negli anni 2000 ma anzi, si diverte ad interpolare con il proprio stile, fraseggi rap, hip hop, e quindi a mescolare musicisti storici ed affermati con giovani esponenti del ritmo targato terzo millennio.

Bootsy gigioneggia da par suo: canta, suona il basso, fissando con le sue linee un marchio di fabbrica indelebile, ma soprattutto lascia la sua inconfondibile impronta sui brani, ben quindici, che compongono l’album, per cui è inevitabile che, ad un certo punto, e neppure troppo tardi, l’ascoltatore si ritrovi a “battere il piedino”, anche senza volerlo, perché questo sound è irresistibile, e quando entra in circolo non trova barriere di sorta.

Non tragga in inganno l’apertura del primo brano, la title track, in cui una voce volutamente “vecchia” introduce il protagonista di questo album: neppure un minuto e mezzo ed il ritmo schizza fuori, improvviso ed irrefrenabile, con le frequenze basse in gran spolvero, gli incroci vocali, la chitarra di Buckethead che a tratti pare quasi metal, ed i fiati a tirare la volata: funk, boogie, hip hop, qualche spruzzata rap, mescolati senza nessun problema a fraseggi decisamente rock; questa sarà, in linea generale, la cifra stilistica di tutto questo lavoro, che propone una sorta di apoteosi bassistica nel secondo brano, quel Bass-Rigged System che vede allineati due pezzi da novanta, Stanley Clarke e Victor Wooten, una giovanissima e strepitosa Alissia Benveniste ed un altrettanto spettacolare Manou Gallo.

Ma Collins è artista davvero a 360 gradi, e non si occupa solamente, diciamo così, del “suo”, ovvero della pura parte ritmica, e lo si può verificare nella sequenza dei brani che compongono l’intero lavoro.

Sono valorizzate le differenti performances vocali, si inseriscono elementi come lo scratch, i fiati, quando appaiono, offrono quel tocco retrò ai brani, avvicinandoli alle atmosfere seventies e le chitarre, che talvolta rasentano, come detto, il metal, ma molto spesso suonano in chiaro stile Nile Rodgers (e non casualmente, ovvio…), danno corpo alle composizioni grazie a quel mix di jazz, dance e funk di cui Bootsy Collins è depositario da decenni.

La sequenza Pusherman, Thera-P ed Hot Saucer è una sorta di piccola enciclopedia in materia.

C’è anche, e ci mancherebbe altro, qualche pausa, più soul ed r’n’b oriented, come Heaven Yes, ma anche in queste circostanze appare evidente la maestria del cantante e bassista nel mescolare le influenze, i suoni, senza timore di confrontarsi con altri maestri del genere, ma è solo un attimo, giusto il tempo di “tirare il fiato” perché la ripartenza, con Ladies Nite è immediata, e fa da apripista al vero e proprio tuffo negli anni ’70 rappresentato da quella Candy Coated Lover in cui, la splendida voce di Kali Uchis, scivola sinuosa tra ritmiche e suoni vintage.

Con Hi-On-Heels si rallenta ancora un attimo, lasciando spazio a deliziosi e complessi incroci vocali laddove, per un attimo, gli strumenti si limitano, in maniera decisamente minimalista, ad accompagnare, e con la successiva A Salute to Bernie, Collins omaggia l’amico e sodale Bernie Worrell, membro fondatore dei Parliament e dei Funkadelic, scomparso l’anno prima, ma protagonista del brano con le sue tastiere, registrate precedentemente.

Dopodichè si riparte con una curiosa Boomerang, anomalo brano r’n’b caratterizzato da un incedere uptempo inusuale quanto accattivante, prima di scivolare nella ballad black più classica, Worthy My While, affidata ancora a Kali Uchis, vera e propria musa soul per Collins che, nell’occasione, la affianca in un duetto soft ammaliante e seducente.

Come Back Bootsy rappresenta la passerella ideale per il big della batteria, Dennis Chambers, che si concede un misurato quanto efficace drums solo su una base funk classica, lineare e precisa, prima che l’album vada a chiudersi con Illusions, una sorta di space-funk, venato di psichedelia, dagli echi prima heavy, poi hip hop, ed un finale quasi noise, a dimostrazione che Bootsy Collins ama mescolare, quanto più possibile.

E se, a questo punto, non siete proprio ma proprio stanchi, potete ripartire da capo, perché la festa, e la danza, continuano…

(Mascot Records, 2017)

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