Allan Holdsworth – Road Games

(Andrea Romeo – 14 maggio 2020)

Se c’è un musicista, sulla cui storia vale davvero la pena di fare una riflessione, questo è Allan Holdsworth, chitarrista e compositore di Bradford che ha attraversato, in punta di piedi, una decina di lustri, lasciando tracce fondamentali pur senza mai “essere un personaggio”.

Inizia suonando il violino, poi passa alla chitarra e parte subito fortissimo, trovandosi a suonare in situazioni musicali di primissimo piano: Soft Machine (Bundles), The New Tony Williams Lifetime (Believe It e Million Dollar Legs), Pierre Moerlen’s Gong (Gazeuse!, Expresso II, Time Is the Key), Jean-Luc Ponty (Enigmatic Ocean), ed ancora Tempest (Tempest), Bill Bruford (Feels Good to Me, One of a Kind), sino all’epocale esordio degli U.K. con l’album omonimo, uscito nel 1978, a fianco di John Wetton, Eddie Jobson e dello stesso Bill Bruford.
Dal 1976 ha intrapreso anche una carriera parallela come solista, che lo vedrà realizzare ben tredici album in studio e cinque live, ma soprattutto inizia un percorso, che si è interrotto soltanto con la sua scomparsa, nel 2017, lungo il quale sviluppa un personalissimo approccio allo strumento: la sua tecnica, innanzitutto, anticipatrice o sviluppatrice rispetto ad altre, poi ampiamente utilizzate, quali ad esempio lo shredding, lo sweep picking ed il glissato, unita a quel suo timbro “liquido”, fluido, riconoscibile fra mille, ricco di chorus e delay sapientemente dosati, e che elaborerà ulteriormente quando si dedicherà allo studio sella chitarra-synth, giungendo infine alla realizzazione di un nuovo strumento, chiamato Synthaxe, un midi controller attraverso il quale poteva pilotare anche sei sintetizzatori in contemporanea.
Non solo un compositore ed un chitarrista dunque, ma un vero e proprio studioso dello strumento e del suono, attitudine che, sempre espressa senza clamori, gli varrà un amplissimo credito, soprattutto presso gli addetti ai lavori.

Quando pubblica Road Games, nel 1983, album che contiene almeno tre fra i brani che ne definiscono lo stile quali la title track, Water on the Brain Pt. II e Tokyo Dream, Holdsworth è già un maestro ed un caposcuola ampiamente riconosciuto: chitarristi come Eddie Van Halen, Joe Satriani, Greg Howe, Shawn Lane, Richie Kotzen, John Petrucci, Alex Lifeson, Kurt Rosenwinkel, Yngwie Malmsteen, Michael Romeo, Ty Tabor o Tom Morello hanno, da sempre, dichiarato di essere stati influenzati dal suo stile.

Frank Zappa lo definì: “One of the most interesting guys on guitar on the planet…”, l’amico John McLaughlin di lui ha detto: “If I knew what you were doing, I’d steal everything, but I don’t know what you are doing!”, laddove Robben Ford ebbe ad affermare: “I think Allan Holdsworth is the John Coltrane of the guitar. I don’t think anyone can do as much with the guitar as Allan Holdsworth can.”

Eric Johnson dichiarò: “Allan’s beautiful and unique chord voicings have always had an impact on me. His approach to guitar is one of a kind. He pushes the limits of the boundaries of electric guitar, and his lead phrasing would make Charlie Parker smile. His playing is essential listening for any guitarist, of any style, so they can see that the only limits we have are the ones we put on ourselves.”

Anche Pat Metheny concordava con i colleghi: “I totally agree that Allan is one of the greatest guitarists ever; his work on the mid-70’s Tony Williams records was revolutionary and changed everything for guitarists everywhere. It is a real mystery to me why he is not a household name. But it really doesn’t matter, his contribution is large and I think all musicians know it.”

Chitarristi appartenenti a mondi differenti, quindi, che vanno dal progressive-rock al rap-metal, dalla fusion al prog-metal, dal blues allo speed-metal, ma tutti concordi nel ritenere Holdsworth un artista che, non solo ha insegnato loro qualcosa, ma dal quale è stato poi impossibile prescindere.

Road Games è stato il suo terzo album come solista, all’interno del quale ha coinvolto il batterista Chad Wackerman ed il bassista Jeff Berlin, oltre ad ospitare, alla voce, Jack Bruce, e si può considerare l’album della svolta, l’album attraverso il quale, dopo i primi passi quasi in sordina di Velvet Darkness ed I.O.U., il musicista britannico metterà in fila una decina di lavori che diventeranno, nel tempo, una sorta di enciclopedia della chitarra elettrica.

Un musicista che, caratterialmente, ha sempre fatto sfoggio di grande modestia, che non ha mai amato mettersi in mostra ma che ha segnato, indelebilmente, la storia della chitarra elettrica, aprendo spazi ed esplorando sonorità sino ad allora poco o per nulla indagate.

Un esempio, solare, di artista che ha innalzato, e di parecchio, il livello dell’asticella che riguarda il proprio strumento, imponendosi come un maestro ed un ispiratore per moltissimi chitarristi che, a volte senza neppure immaginarlo, hanno nei suoi confronti un debito enorme.

(Warner Bros, 1983)

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