Alan Parsons – From the New World

Il grande creatore di suoni e di atmosfere è, almeno in parte, tornato indietro nel tempo, andando a recuperare frammenti sparsi dei suoi lavori precedenti ed innestandoli su una sorta di nuovo telaio fornitogli da una serie di musicisti in grado di cogliere le suggestioni e di tradurle in forme musicali che sono, seppur debitrici verso un illustre passato, decisamente “moderne” quanto a struttura e resa sonora.

Per valutare le undici tracce presenti all’interno di From the New World, l’ultimo album realizzato da Alan Parsons, vale la pena di considerare questa premessa, per alcuni motivi: dopo aver chiuso l’esperienza dell’Alan Parsons Project nel 2014, con l’album The Sicilian Defence, scritto in realtà ventiquattro anni prima, appena dopo l’uscita di Freudiana, e mai pubblicato, il compositore, musicista ed ingegnere del suono londinese ha avuto una carriera solista discontinua e frammentata, vissuta all’apparenza nell’indecisione tra il rimanere fedele ad uno stile consolidato ed il tentare invece di percorrere altre strade musicali che se ne distaccassero.

Già con il precedente lavoro, The Secret, pubblicato nel 2019, l’impressione era che Parsons avesse le idee decisamente più chiare riguardo alla questione, e la conferma definitiva la si percepisce grazie a questo nuovo lavoro che, non soltanto recupera la coerenza melodica, ma anche le atmosfere che erano state, da sempre, le caratteristiche specifiche del suo metodo di scrittura e di arrangiamento.

Le note di apertura di Fare Thee Well non danno davvero adito a dubbi: sonorità ariose, chitarre liquide, tastiere che creano le giuste atmosfere, sono le caratteristiche che fanno di questo lavoro una sorta di ritorno alle origini ma anche, molto probabilmente, una vera e propria pacificazione con esse: avere infilato, sin dagli inizi della carriera, una serie di album, da Tales of Mystery and Imagination a Freudiana, passando per I RobotEye in the SkyVulture Culture o Gaudi, divenuti ognuno a suo modo vere icone di un genere, a cavallo tra progressive e pop, tenuto insieme da significative derive sinfoniche, ha vincolato inevitabilmente Parsons per molti anni, per lo meno fino alla scomparsa del suo storico partner Eric Woolfson avvenuta nel 2009, a seguire un determinato percorso, dal quale risultava difficile staccarsi.

The Secret prosegue lungo questo itinerario visionario in cui, a tratti, si colgono fugaci echi di brani passati: sono più impressioni che veri e propri riferimenti, ma tanto basta per riconnettere questi brani ad una storia che arriva da lontano.

As usual, perché anche queste sono caratteristiche imprescindibili, le esecuzioni sono impeccabili, bilanciate, ricche di dinamica e di suggestioni melodiche, arrangiamenti ricchi ma mai eccessivi, insomma una produzione, e non poteva essere altrimenti, del tutto in linea con gli standard altissimi ai quali Alan Parsons ci ha abituati sin da quando si trovò a sedere dietro alla consolle durante la lavorazione di Abbey RoadLet it Be o The Dark Side of the MoonUroborus, il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album, si avvale inoltre della notevole prestazione vocale di Tommy Shaw, cantante degli Styx, che regala al brano una sottile deriva AOR.

Già dai tempi del Project, Alan Parsons ha sempre avuto una spiccata predilezione per le ballad, ed anche in questo caso ha confezionato un brano delicato e sognante come Don’t Fade Now, che si inserisce a pieno titolo nella lunga storia della band.

Brani brevi, in generale, ma soprattutto privi di quelle derive strumentali che, peraltro perfettamente inseribili in questo contesto, avrebbero corso il rischio di appesantirli: Give ‘Em My Love, in cui spiccano la voce di James Durbin, uscito nel 2011 da American Idol e transitato poi nei Quiet Riot, e la chitarra solista di un inatteso Joe Bonamassa che, seppur distante dal suo ambito naturale, si è rivelato in grado di connettersi efficacemente con il mood del brano.

E le atmosfere rilassate proseguono con la successiva Obstacles, suonata in punta di dita dall’intera band, con una menzione particolate per il pianoforte di Tom Brooks e per la chitarra acustica di Jeff Kollman, capaci di un’interpretazione davvero intensa e profonda; se c’è poi un’altra caratteristica molto presente nella scrittura di Alan Parsons, è sicuramente la cura per gli incroci vocali: detto di Shaw e Durbin, vanno citati sicuramente gli altri protagonisti presenti nell’album, ovvero Todd CooperMark MikelP.J. Olsson, lo stesso Parsons, David Pack, ex cantante e fondatore degli Ambrosia, che appare in I Won’t be Led AstrayDan Tracey e Tabitha Fair, tra le voci del videogame Sonic the Hedgehog e protagonista della conclusiva, ed imprevedibile quanto a genere, stile ed esecuzione, Be my Baby.

Al pop melodico di I Won’t be Led Astray fa seguito l’AOR delicato e misurato di You Are the Light, in cui voci e chitarra rivestono un ruolo da protagonisti, e la successiva Halos, dall’intro misteriosa e cupa, che rimanda ai primi lavori del Project.

Gioca con il passato, Alan Parsons, ma come detto lo fa con maestria, ed attraverso suoni decisamente attuali, che poco o nulla concedono all’effetto “vintage”.

Goin’ Home, con il suo sviluppo orchestrale, è un altro brano in linea con la storia dell’autore che qui spiega, per vie traverse, il suo ritorno a casa musicale, l’essersi riappropriato e riconciliato con il proprio percorso, prima di chiudere il lavoro con un colpo di scena inatteso, grazie al brano uscito dalla penna di Jeff BarryEllie Greenwich e Phil Spector nel 1963, portato al successo dalle Ronettes, delle quali fu, da allora in poi, l’hit per eccellenza, e del quale Parsons ed i suoi musicisti offrono un’esecuzione assolutamente rispettosa, quasi filologica, rispetto all’originale.

Non un album innovativo, dunque, cosa che dopo quasi cinquant’anni di carriera sarebbe stato pressochè impossibile chiedere, ma un lavoro di grande qualità, ben strutturato e ben confezionato e che, facendo riferimento ad una frase recentemente pronunciata da Steven Wilson, a proposito dell’ultimo nato in casa Porcupine Tree, se anche dovesse essere l’ultimo, sarebbe comunque un’ottima chiusura di carriera, anche se la strada da percorrere è, probabilmente, ancora lunga.

(Frontiers Records, 2022)

Print Friendly, PDF & Email