A song a day keeps the virus away (3 aprile 2020)

(28 marzo 2020)

La musica, oltre a emozionarci, farci sognare o semplicemente a svagarci e divertirci, ci fa meditare, riflettere, pensare.
E, da questo punto di vista, può essere un prezioso sostegno psicologico per superare momenti di disorientamento e sconforto come quelli che stiamo vivendo oggi.
Tutti i giorni, a partire da lunedì 23 marzo, alle ore 15 su www.jamtv.it (JAMBALAYA) Ezio Guaitamacchi presenta storie, curiosità e riflessioni legate alle canzoni che hanno fatto epoca, quelle che, pur scritte anni fa, sono ancora di un’attualità disarmante. Un modo diverso di (ri)scoprire brani bellissimi che ci riconciliano con la vita e per ricordare a tutti, come cantava Laurie Anderson, la prima protagonista di questa mini serie, che “il Paradiso è dove siamo noi … ma è pure molto meglio” (“Language is a Virus”).

BOTH SIDES NOW – JONI MITCHELL

Marzo del 1967

Joni Mitchell sta volando da Detroit a Filadelfia dove l’attende una decina di concerti al The Second Fret, uno dei folk club più belli d’America. Con sé ha una copia de “Il re della pioggia”, il romanzo di Saul Bellow nelle prime pagine del quale il protagonista Henderson è seduto pure lui su un aereo.

“Nel racconto di Bellow, Henderson sta volando in Africa”, racconterà Joni Mitchell, “e guardando dal finestrino osserva le nuvole… ho fatto anch’io come lui: ho posato il libro, guardato dal finestrino e ho visto le nuvole. Poco dopo, mi sono messa a scrivere il testo di una canzone…”.

Joni, in modo poetico, scrive su un foglietto che le nuvole le appaiono come “castelli fatti di gelato alla crema sospesi nel cielo” e riflette sul fatto che le cose della vita, proprio come le nuvole, possono essere viste da almeno due punti di osservazione o da entrambi i lati: both sides, appunto… e anche quando le cose vanno male possono essere viste da una prospettiva molto più positiva e ottimista.

La Mitchell, in quei giorni, non ha ancora un contratto discografico e così decide di regalare quel brano a due amici folksinger, Dave Van Ronk e Judy Collins. Quest’ultima, dopo averlo registrato nel 1968, lo farà diventare un brano di successo con il titolo di “Both Sides Now”.

Joni, invece, lo pubblicherà nel maggio 1969 nel suo secondo album, “Clouds”, prodotto da Paul Rothchild, il producer dei Doors.

31 anni dopo, la Mitchell trasformerà “Both Sides Now” in un brano dai profumi jazz nell’album omonimo in cui, accompagnata da una grande orchestra, rivitalizzerà alcuni classici del song book nordamericano.

MISSISIPI – SHERYL CROW

Anno 1997

24 maggio 1997: è il giorno del suo 56esimo compleanno, ma Bob Dylan non riesce a festeggiare. Accusa dolori forti al petto. Non gli era mai successo prima. Teme sia un infarto: è talmente preoccupato che accetta di farsi ricoverare in ospedale. Cinque giorni dopo, la notizia viene resa pubblica dal suo manager, Barry Dickins. “La situazione è seria”, ammette Dickins, “lavoro con Dylan da dieci anni e non l’ho mai visto così. Aspettiamo un nuovo consulto dei medici”. Ben presto, viene scartata l’ipotesi dell’attacco cardiaco. Pare piuttosto trattarsi di una strana infezione, oscura e misteriosa (qualcuno dice) come i testi delle canzoni dylaniane. Per Barry Dickins, potrebbe addirittura essergli fatale. Per fortuna però, in pochi giorni, le condizioni del paziente Bob Dylan migliorano. “La situazione generale rimane seria”, recita il comunicato medico ufficiale, “c’è un pesante interessamento dell’intera area polmonare ma il paziente non è in pericolo di vita”. “Per un momento ho temuto di dover riabbracciare Elvis …”, ammette Dylan in quei giorni. Successivamente, si viene a sapere che Bob Dylan ha contratto un virus raro dopo aver trascorso qualche giorno nello stato del Mississippi. Anni dopo, scrive una canzone che parla proprio di quella vicenda.

“There’s only one thing I did wrong” (c’è una sola cosa che ho sbagliato) canta Bob Dylan “sono rimasto nel Mississippi un giorno di troppo” I stayed in Mississippi a day too long…

Bob Dylan deciderà poi di regalare questa canzone a Sheryl Crow che ne farà una versione spensierata, allegra, country-rock… assolutamente da ascoltare.

HOLD ON, I’M COMIN’ – SAM & DAVE

Anno 1966

Negli studi della Stax a Memphis sono al lavoro Isaac Hayes e David Porter. I due hanno già scritto grandi hit, come “Soul Man” portata al successo da Sam & Dave e proprio per questo duo soul e R&B stanno ora cercando un altro brano forte. L’ispirazione sembra nascere in studio ma, a un certo punto, nel bel mezzo della fase creativa, David Porter ha un’urgenza: deve andare in bagno. La sua permanenza si allunga e dopo un quarto d’ora un innervosito Isaac Hayes lo chiama. “Hey Dave, che stai facendo? Dove sei finito?”, gli urla. “Aspetta amico, sto arrivando”, (Hold on man, I’m comin’), gli risponde Porter. 

Detto fatto: uscito dal gabinetto, Porter si mette di nuovo al lavoro e conclude con Hayes il brano che, per ricordare quella curiosa circostanza, viene intitolato proprio “Hold On, I’m Comin'”. La versione di Sam & Dave è un successo: il disco vende un milione di copie e diventa un classico della black music ripreso in modo mirabile dai Blues Brothers Dan Aykroyd e John Belushi.

MY BACK PAGES – BOB DYLAN

Dicembre del 1963

Il ventiduenne Bob Dylan viene insignito del Tom Payne Award, un riconoscimento dato a personalità che si sono distinte per senso libertario e impegno nella società civile. Lo determina un comitato formato da personaggi progressisti della sinistra americana. Dylan, in evidente stato alterato (probabilmente ubriaco) tiene un discorso improbabile nel corso del quale offende ripetutamente i presenti, persone più mature, colpevoli (secondo lui) di una visione fin troppo ortodossa della consapevolezza politica. Giunge persino a sostenere di “rivedersi in Lee Harvey Oswald”, l’uomo che poche settimane prima aveva sparato al presidente Kennedy. Subissato dai fischi, Dylan dice anche di “aver impiegato del tempo per scoprirsi giovane” ma di sentirsi ora orgoglioso di esserlo. Quella espressione contiene il senso della sua nuova fase personale e artistica, quella in cui decide di chiudere definitivamente con il suo (vero o presunto) impegno politico a favore di una svolta rock. Quella stessa espressione diventa parte del ritornello della canzone più significativa del suo nuovo album, emblematicamente intitolato “Another Side of Bob Dylan”. Il pezzo, “My Back Pages” inciso con chitarra acustica e voce, nel ritornello recita “I was so much older then, I’m younger than that now”, cioè “Allora ero molto più vecchio, oggi mi sento assai più giovane”. Il brano diventa poi un grande classico anche dei Byrds.

MOONSHADOW – CAT STEVENS

Anno 1969

Steven Georgiou ha 21 anni e tutti lo conoscono con il nome d’arte di Cat Stevens. Tre anni prima, le sue canzoni hanno incantato l’Inghilterra. Ma poi si è un po’ perso e ora ha contratto la tubercolosi: si deve curare perché la malattia lo ha colpito duramente. Trascorre quasi un anno tra ospedali e convalescenza, cambia stile di vita e abitudini. Pratica la meditazione, si dedica allo yoga, si interessa ad altre religioni e diventa vegetariano. Durante una vacanza in Spagna assiste a un fenomeno naturale che lo affascina.  “Ero un ragazzo del West End londinese”, racconta quasi 40 anni dopo, “abituato a luci e suoni della metropoli. Non avevo mai visto la luna nel buio del cielo notturno: in città ci sono lampioni ovunque. Mi trovavo su una spiaggia deserta; l’unico suono era il rumore del mare, l’unica luce quella della luna.  Di colpo, ho guardato per terra e ho scorto l’ombra del mio corpo illuminato dalla luna”.

Nasce così uno dei brani più belli e amati del cantautore inglese che viene pubblicata nel 1970 come singolo (sula lato B Father And Son) prima di far parte dell’album Teaser and The Firecat.

FEELIN’ ALRIGHT?  JOE COCKER

Anno 1967 

Autunno del 1967: alla vigilia della pubblicazione dell’album d’esordio, Dave Mason lascia la band che aveva fondato con Steve Winwood, i Traffic. Seguendo l’esempio di Leonard Cohen e di altri artisti nordamericani trova rifugio sull’isola greca di Idra per cercare ispirazione ma anche per leccarsi le ferite causate da una relazione sentimentale finita male. “Volevo scrivere il brano più semplice possibile e sfogare lì dentro tutto il mio mal d’amour e la mia delusione per l’ennesima love story fallimentare…”, ha spiegato il musicista inglese anni dopo. Il brano sembra una sintesi emblematica del suo stato d’animo: un pezzo che ruota intorno a due accordi, dal tono melanconico seppur reso più frizzante da un ritmo sincopato, e nel quale l’artista sembra chiedere all’amata “tu stai bene?” Chiosando però per se stesso “io mica tanto”. “Feelin’ Alright?” (con tanto di punto di domanda) è il titolo scelto dalla casa discografica che rifiuta quello proposto da Mason (ritenuto troppo pessimista) che poi era il commento alla domanda stessa e cioè “I’m not feelin’ too good myself”. Una volta lasciata Idra per raggiungere New York, Dave Mason si riunisce ai Traffic portando in dote il brano che andrà a impreziosire il secondo album della band inglese. Un altro rocker britannico, Joe Cocker, neppure un anno dopo, incide una sua versione (ancor più ritmica, sincopata e spumeggiante) che fa diventare “Feeling Alright” (stavolta senza punto di domanda) un classico del rock.

JACKSON BROWNE – TAKE IT EASY

Anno 1971

È la primavera del 1971 e Jackson Browne sta preparando il suo album di debutto. Glenn Frey insieme a Don Henley, invece, fa parte di quella band che prima accompagnava Linda Ronstadt e di lì a poco si sarebbe chiamata The Eagles. I due sono amici e frequentano il Troubadour, l’Ash Grove, tutti i locali della Los Angeles folk-rock di quell’epoca e un giorno Jackson fa sentire all’amico Glenn una canzone che però non era ancora completata. In particolare si concentra su una strofa in cui racconta che lui era seduto su un angolo della strada a Winslow, Arizona. È un fatto veramente accaduto perché in quel remoto angolo dell’Arizona Jackson aveva avuto un guasto alla sua automobile e aveva dovuto aspettare un giorno per riaverla. A Glenn quella canzone piace molto e propone a Jackson di poterla completare direttamente lui. I due si rivedono qualche giorno dopo ed effettivamente Glenn Frey non solo aveva finito la canzone, ma era riuscito anche ad arrangiarla in maniera particolare, tanto che lo stesso Jackson Browne aveva dichiarato: “Io stesso non avrei potuto fare di meglio”. Insomma quel brano, Take It Easy, verrà registrato prima dagli Eagles che lo porteranno veramente a un grande successo e nel 1973 da Jackson Browne per il suo album For Everyman.

Take It Easy, cioè “prendiamola con filosofia”, è allora una colonna sonora perfetta a questi giorni che stiamo vivendo.

WEREWOLVES OF LONDON – WARREN ZEVON

Anno 1975

Phil Everly, il più giovane e quello con la voce più alta degli Everly Brothers, è solito scherzare con l’amico Warren Zevon, acclamato songwriter di Chicago trapiantato in California. Dopo aver visto in televisione un film degli anni ’30, “Werewolves Of London” (i lupi mannari di Londra), continua a dirgli che avrebbe dovuto scrivere un brano con lo stesso titolo. “Sono sicuro che sarà un successo e che diventerà un tormentone”, sostiene Everly.

Zevon, dopo un po’ si convince e, seppure sempre un po’ per scherzo, decide di coinvolgere gli amici Waddy Wachtel e LeRoy Marinel. I tre compongono il brano in un quarto d’ora sviluppandolo attorno a un semplice giro di sol. Il testo, assolutamente surreale, parla di lupi mannari che si aggirano per ristoranti cinesi di Londra, mangiano piatti esotici e bevono Piña Colada. Warren Zevon, all’inizio, prende sottogamba la canzone che considera niente più che una boutade. Il pezzo però piace al suo amico Jackson Browne che inizia a suonarla durante i sound check dei suoi concerti. T Bone Burnett fa lo stesso proponendo il brano nel corso della prima parte del tour della Rolling Thunder Revue, il carrozzone hippie capitanato da Bob Dylan.

Tre anni dopo, Zevon pubblica il pezzo nel suo terzo, favoloso album Excitable Boy. Secondo Waddy Wachtel, “Werewolves Of London” è stato il brano più difficile da rendere in studio anche se il suo assolo di chitarra fu buono al primo colpo. La canzone diventa immediatamente un successo e resta in classifica per oltre un mese.

SOUL SACRIFICE – SANTANA

Agosto del 1969

Sul palco di Woodstock sale un sestetto sconosciuto ai più. Li ha fortemente voluti lì (o meglio imposti) il loro manager, Bill Graham, padre-padrone del rock di San Francisco. Graham, che aveva in pugno le superstar della musica psichedelica (Jefferson Airplane e Grateful Dead) aveva patteggiato con gli organizzatori del festival. “Li avrete a Woodstock”, aveva detto Graham riferendosi a Dead e Airplane, “se prendete il gruppo su cui sto puntando: la Santana Blues Band”.

Formato da musicisti giovanissimi di etnia diversa (un afroamericano, due ispanici, due californiani e un chitarrista messicano) era la rivelazione della scena di San Francisco, con un sound che sembrava un formidabile, originalissimo mix di rock, blues e psichedelica energizzato da ritmi e percussioni afro-cubane.

“Avevo preso dell’Lsd prima di salire sul palco di Woodstock”, ha raccontato anni dopo Carlos Santana, “e per quasi tutto il tempo ero in un’altra dimensione. Ma, sul brano finale, Soul Sacrifice, è come se mi fossi svegliato di colpo”. Il brano, uno strumentale trascinante condotto magistralmente dalla Gibson di Santana, è impreziosito da uno spettacolare assolo di batteria di Michael Shrieve (allora ventenne) e trasforma i Santana da artisti sconosciuti a una delle rock band più acclamate del pianeta. Sono stati gli unici ospiti di Woodstock a suonare senza avere un album. Il loro disco di debutto uscirà, infatti, poche settimane dopo e arriverà al quarto posto in classifica.

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